Ficca il naso

domenica 29 aprile 2018

La prima battaglia partigiana d'Italia





Col proclama Badoglio, che annunciava l'armistizio di Cassibile, si chiudeva la prima fase della seconda guerra mondiale per il nostro paese e iniziava l'occupazione tedesca, cui si oppose la Resistenza. Questo fenomeno interessò persone di diversa affiliazione politica e ideali: comunisti, socialisti, monarchici, cattolici, liberali, tutti accomunati dal profondo sentimento di avversione al nazifascismo. La prima battaglia fra forze partigiane italiane e truppe di occupazione tedesche avvenne fra il 14 e il 16 novembre sul monte S. Martino, una montagna situata fra la Valcuvia e il lago Maggiore, in provincia di Varese.

Il Gruppo Cinque Giornate

Il monte S.Martino, teatro della battaglia


L'annuncio dell'armistizio lasciò le forze armate allo sbaraglio e nella confusione. Ai nostri militari non rimaneva che scegliere se farsi disarmare e internare dai tedeschi, continuare a combattere al loro fianco, darsi alla macchia oppure opporre resistenza. Il migliaio di uomini del presidio di Portovaltravaglia erano al comando del tenente colonnello dei bersaglieri Carlo Croce, ufficiale di complemento già più volte decorato durante la Grande Guerra. Per alcuni giorni egli riuscì a tenere insieme la truppa, che però andava sfaldandosi irrimediabilmente, colta dalla confusione e dalla paura. Il Croce decise dunque di onorare il suo giuramento al re e riorganizzare le forze disponibili per opporsi all'occupazione nazista. Il 19 settembre il colonnello decise di spostare la base operativa lungo la Frontiera Nord, il sistema di fortificazioni approntate dopo la Prima Guerra Mondiale anche note come Linea Cadorna, ritenuta una posizione più difendibile delle posizioni nel paese di Roggiano, dove si erano inizialmente stabiliti. Ai pochi uomini sul monte se ne unirono in breve tempo molti altri: sbandati, civili, ex-prigionieri e militari. Tutti costoro andarono a formare il reparto Esercito Italiano-Gruppo Militare "Cinque Giornate" Monte San Martino di Vallata Varese. Il colonnello infatti aveva scelto di organizzare i suoi uomini come un reparto del regio esercito, dividendolo in tre compagnie una volta che furono raggiunti i numeri di armati sufficienti. Dato che inizialmente armi e munizioni scarseggiavano, il gruppo compì una serie di "missioni" per requisirle nelle caserme delle vicine Luino e Laveno, oltre che ad ottenerne dai militari sbandati che cercavano di attraversare il confine per riparare in Svizzera. Con lo stesso sistema vennero requisite alcuni automezzi e una buona quantità di cibo e materiali. Molti abitanti dei paesi circostanti aiutarono volontariamente Croce e i suoi uomini, dichiarando poi di essere stati vittime di rapina per prevenire le durissime rappresaglie che i tedeschi riservavano per chi collaborava con i "banditi". Complessivamente il gruppo poteva disporre di un moschetto a soldato, pistole per metà dei combattenti, 700 bombe a mano e 10 mitragliatrici Breda con 6.000 colpi di scorta. Oltre a automobili e camion, i partigiani potevano anche  contare sui due muli Adolfo e Benito. Il Comitato di Liberazione Nazionale di Varese entrò in contatto col colonnello, nonostante le difficoltà create da spie e delatori, tentando a più riprese di convincerlo ad abbandonare le posizioni del monte per adottare una strategia più mobile. Da soldato coraggioso e inquadrato qual era, il Croce intendeva seguire la dottrina militare e attendere il nemico a piè fermo. Infatti i suoi uomini profusero moltissime energie nel pulire sentieri, scavare trincee e riassestare le opere di fortificazione in stato di abbandono. Da parte dell'occupante si intensificò l'attività di spionaggio, facilitata dal fatto che i soldati, inquadrati secondo logiche e schemi prettamente militari, non avevano assunto nomi di battaglia come invece divenne consuetudine dei combattenti partigiani. Iniziarono anche le ricognizioni in loco sempre più frequenti, con anche alcune sparatorie fra i due schieramenti, nei quali caddero alcune SS.

La battaglia

Don Mario Limonta, il cappellano della formazione. Il religioso si batté con grande coraggio

L'attacco venne deciso per il 14 novembre, per impedire che durante l'inverno la formazione continuasse a ingrandirsi e a creare problemi all'occupante. Croce pensava che gli alleati sarebbero arrivati presto, e incapace di concepire quella che riteneva una ritirata disonorevole, non ascoltò i ripetuti appelli che il CLN di Varese fece per convincerlo ad abbandonare il monte. Il 12 un aereo da ricognizione sorvolò il monte per verificare la posizione delle fortificazioni e la consistenza numerica dei difensori. Dopo aver fatto confluire forze da Milano, gli occupanti dichiararono lo stato d'assedio, sospesero corse tranviarie e comunicazioni, e infine procedettero a rastrellare tutti gli uomini fra i 15 e i 60 anni nei paesi vicini, per evitare che aiutassero i partigiani durante o dopo l'attacco. Gli attaccanti potevano contare su 2000 uomini circa fra reparti di avieri appiedati, milizie fasciste e carabinieri che unitamente alla confinaria di Varese, accerchiarono la zona d’azione. Costoro potevano inoltre disporre di carri armati leggeri, mitragliatrici, supporto aereo, cannoncini e 300 autocarri. L'attacco inizia con una puntata tedesca, respinta, verso le 14. In seguito un ufficiale tedesco si fa avanti per parlamentare, permettendo così alle sue forze di avanzare approfittando del cessate il fuoco. Ma il colonnello intuisce il trucco e ordina a una pattuglia di aggirare e respingere gli assalitori, che si ritirano a valle. Nella nottata Croce posizionò un nutrito gruppo di militi sulla vetta, in quanto di primaria importanza per difendere l'intero monte: infatti i tedeschi concentrarono molti sforzi sul versante che sale da Arcumeggia.
La mattina del 15 le incursioni tedesche furono respinte da un intenso fuoco di mitragliatrice, che lasciò sul campo morti e feriti. Verso le 10 intervenne la Luftwaffe, e il monte venne bombardato per un'ora e mezza da tre apparecchi, bersagliati dal fuoco delle mitragliatrici dei difensori, che pure privi di armamento anti-aereo si ingegnarono a sollevare i treppiedi delle armi poggiandoli sulle spalle dei compagni per avere il giusto alzo. Gli sforzi dei partigiani furono coronati dal successo: uno degli apparecchi, colpito, dovette abbandonare il luogo dello scontro per effettuare un atterraggio di emergenza. Nonostante la tenace resistenza però, gli attaccanti riuscirono ad occupare la vetta grazie alla schiacciante superiorità in numeri e mezzi. Dalla posizione sopraelevata i tedeschi potevano ora fare fuoco sui difensori più in basso, che si ritirarono nelle casematte. Per tutta la giornata i soldati difesero la strada che porta al S. Michele, nonostante la disparità fra le forze in campo, ma dovettero infine ritirarsi nelle caverne.
Il 16 la situazione appariva drammatica: le munizioni scarseggiavano, il morale era basso e molti uomini avevano disertato. Particolarmente deludenti furono gli inglesi e gli americani presenti, che abbandonarono le posizioni senza nemmeno essere attaccati. Il tenente Hauss suggerì la resa al Croce, che rifiutò energicamente. Molti difensori invece rimasero colpiti dal coraggio mostrato dai loro avversari, che si esponevano al fuoco per recuperare un commilitone ferito rischiando a loro volta la vita. La forte posizione difensiva permise ai soldati di Croce di resistere fino all'imbrunire, quando il colonnello diede l'ordine di ritirarsi. Messe fuori uso le proprie autovetture e minati i cunicoli del forte, col favore delle tenebre e la probabile connivenza dei carabinieri, Croce e i suoi riuscirono a sfuggire all'accerchiamento e riparare in Svizzera.

Dopo la battaglia

Partigiani catturati sotto il tiro dei fucili
Una cinquantina di partigiani furono catturati e portati via per essere interrogati e seviziati dalle SS, mentre altri furono fucilati sul posto e gettati in fosse comuni. Dalle testimonianze di chi nelle settimane seguenti si recò sul monte per recuperare le salme dei caduti emerge che furono 37 i partigiani caduti in azione, mentre i tedeschi dichiararono solo 7 morti. Sicuramente gli attaccanti caduti non furono migliaia, come scrisse don Limonta, ma si stima almeno 200-300. Infatti gli abitanti del luogo assistettero all'intensa attività di recupero delle salme che si protrasse con dispiego di automezzi per diversi giorni. Non contenti di aver sgominato la "banda", i tedeschi portarono sul S. Martino tre ordigni e fecero esplodere le fortificazioni di Vallalta e la chiesetta sulla sommità della vetta. Il colonnello Carlo Croce scelse di non attendere la fine della guerra al sicuro in Svizzera, ma tentò a più riprese di tornare in Italia per continuare la lotta armata contro l'invasore. Il 13 luglio 1944, mentre con sei compagni cercava di passare il confine, fu coinvolto in uno scontro a fuoco con una pattuglia della milizia confinaria in Val Togno. Ferito gravemente a un braccio, fu fatto prigioniero e portato all'ospedale di Bergamo, dove subì l'amputazione dell'arto offeso. Nonostante le orrende sevizie e torture inflitte dalle SS, non rivelò le informazioni che avrebbero potuto condannare i suoi compagni di lotta, spirando il 24 luglio del 1944. Per i suoi atti di valore ed eroismo gli è stata concessa la medaglia d'oro alla memoria con la seguente motivazione.

«Comandante di distaccamento del terzo reggimento bersaglieri a Porto Val Travaglia, con i suoi soldati e con alcuni patrioti organizzava, dopo l’armistizio, la resistenza all’invasore tedesco mantenendo le posizioni fortificate di San Martino di Vallalta. Più volte rifiutate le offerte del nemico, il 13 novembre 1943, con soli 180 uomini, sosteneva per quattro giorni di furiosa lotta l’attacco di 3000 tedeschi, infliggendo gravi perdite, abbattendo un aereo, distruggendo alcune autoblinde incappate su campo minato. Ferito e serrato senza apparente via di scampo, con ardita azione, sì apriva la strada fino al confine svizzero, trasportando gli invalidi e ritirandosi per ultimo dopo aver fatto saltare il forte. Insofferente di inazione e dopo un primo fallito tentativo di rientrare in Italia, varcava nuovamente il confine con sei compagni. Attorniato da nemici e gravemente ferito ad un braccio cadeva prigioniero. Prelevato dalle SS. dall’ospedale di Sondrio, poche ore dopo di avere subita l’amputazione del braccio destro, veniva barbaramente torturato senza che gli aguzzini altro potessero cavargli di bocca se non le parole: « Il mio nome è l’Italia ». Salvava con il silenzio i compagni, ma, portato irriconoscibile all’ospedale di Bergamo, chiudeva nobilmente poche ore dopo la sua fiera vita di soldato»

Regogolo Boemetto

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