Ficca il naso

venerdì 31 agosto 2018

I cantoni non cedono terreno: Sempach, 1386



Il borgo di Sempach era sotto assedio.
I soldati di Leopoldo III D'Austria dileggiavano i soldati riparati dietro le mura. Un cavaliere faceva ondeggiare il cappio, dicendo che presto sarebbe stato l'ornamento dei borgomastri della città. Altri, che vedevano i loro compagni falciare le scorte di grano fuori dall'insediamento, invitavano i difensori a portare loro la colazione.
D'un tratto, però, dalle mura qualcuno rispose: "Saranno quelli di Lucerna e i loro alleati a portarvi la colazione!".

Il 9 luglio all'orizzonte apparvero gli stendardi dei cantoni dell'antica confederazione svizzera: il toro di Uri, la bandiera rosso e bianca del Schywz, la banda rossa in campo bianco dell'Unterwalden, lo scudo di Lucerna. 6000 uomini, in gran parte militi armati di picca e alabarda, si precipitavano per affrontare un esercito di professionisti della guerra, tra cui più di 1500 cavalieri al servizio della casata degli Asburgo. Entrambe le armate si trovarono di fronte a due chilometri dalla cittadina, sorprese dal vedere il nemico venirgli incontro con tale foga.

Gli svizzeri presero subito possesso di un altura, per cui i cavalieri asburgo dovettero smontare per lanciarsi all'attacco. Alcuni furono costretti a staccare gli speroni dalle calzature, poiché ostacolavano i movimenti nello scontro. Mentre la mischia si sviluppava lungo tutta la cresta del colle, gli svizzeri riuscirono a formare i propri ranghi di picchieri, con cui sfondarono il fianco dei cavalieri. Per rispondere a questa manovra, gli austriaci e i mercenari al loro servizio aprirono la propria formazione in una linea più larga, riuscendo ad evitare l'accerchiamento ma trovando sfilacciati e incapaci di reggere al seguento urto svizzero. Infatti se da una parte i cavalieri invasori erano indubbiamente meglio armati e più abili dei miliziani svizzeri, l'armatura pesante sfibrava le loro forze, mentre la calura estiva riscaldave le cotte e gli elmi. Unendo alla sottostima che i nobili avevano per questi contadini male armati, presto il muro di picche svizzero iniziò a trasformare la linea di battaglia austriaca in una serie di capannelli di soldati isolati, senza alcuna coordinazione.

La storiografia svizzera di parla anche dell'eroico sacrificio di Arnold Von Winkelried, il quale si lanciò sulle picche nemiche spezzandole con il proprio peso, tale da permettere ai compagni di infilarsi nella formazione.
Vero o invezione, gli svizzeri ruppero le fila degli invasori e dopo averli messi in fuga si gettarono a predare il ricco bottino lasciato sul campo dai cavalieri austriaci. Lo stesso duca e numerosi nobili vennero uccisi dai miliziani furibondi, non usi alle normali regole di cavalleria che imperavano per tutta l'Europa.

La vittoria della confederazione non fu solo uno dei tasselli per lo sviluppo della Svizzera odierna, ma rappresentò anche l'inizio della fama degli svizzeri quali guerrieri, fama che li consentì di diventare tra i mercenari più richiesti dell'Occidente.


Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?

Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.



https://bit.ly/2MkB1Zr


giovedì 30 agosto 2018

Strage nei Campi Catalaunici (20 giugno 451)



L'Impero romano è ormai al tramonto. Il portentoso edificio costruito dagli Scipioni, da Cesare, da Augusto, da Traiano, sta crollando, un pezzo alla volta, sotto ai colpi di carestie, ribellioni, crisi e l'arrivo dei popoli migratori. Vere e proprie orde, decine di migliaia di guerrieri, ma anche donne, vecchi e bambini che sfuggono non solo da un clima sempre più inclemente, ma anche dall'inesorabile avanzata di un nemico invincibile, che offe solo la resa o la distruzione totale. Guidati dal terribile Attila, gli Unni hanno costruito con le ossa e col sangue un impero che va si estende per oltre 4.5000 chilometri dalle steppe caucasiche fino al Reno e al Danubio. Con i due imperi, d'Occidente e d'Oriente, Attila ha sempre avuto rapporti complessi, di collaborazione e di conflitto: riceve un tributo regolare dall'imperatore d'Oriente ed è stato insignito del titolo di magister militum. Il suo matrimonio con Onoria, la sorella dell'imperatore Valentiniano III potrebbe legare il destino del capo unno a quello della famiglia imperiale, ma Valentiniano stesso è contrario, così come Flavio Ezio, il comandante supremo dell'esercito dell'impero d'Occidente.

Figlio di una patrizia e un generale germanico, Ezio era il perfetto esempio di quella commistione fra barbari e romani che caratterizzò l'epoca tardo-antica. Da giovane era stato tenuto come ostaggio presso gli Unni e dunque aveva avuto modo di comprendere come ragionassero, come combattessero e come batterli. Il mancato matrimonio e altre questioni dinastiche minori spingono Attila ad invadere il nord della Gallia nella primavera del 451 con un gran numero di popoli alleati. Nessuna città incontrata sul cammino, tranne Parigi, "salvata" da Santa Genoveffa, scampa al saccheggio, fino a quando l'esercito del re unno giunge davanti alle porte di Aurelianum, l'odierna Orléans. La città, difesa dai fedeli alani di re Sangibono, era la porta per raggiungere la Gallia sud-occidentale governata dai visigoti di Teodorico I. Ma proprio quando gli unni e i loro alleati sono sul punto di prendere la città sulla Loira, appare l'esercito di Ezio, che è riuscito a convincere Teodorico a unirsi a lui per contrastare l'invasore. Non volendo rimanere chiuso in una sacca, Attila abbandona l'assedio e si ritira in buon ordine per cercare un campo adeguato alla battaglia. La sua armata si ferma infine in una pianura dello Champagne, i Campus Mauriacus, i cosiddetti Campi Catalunici, un terreno particolarmente adatto alle manovre della cavalleria.

Pochi giorni dopo l'armata di Ezio raggiunge il nemico e pone il campo, in attesa dei Franchi sali di re Meroveo, il capostipite della prima dinastia di monarchi francesi. Nella notte tra il 19 e il 20 giugno, mentre gli dei profetizzavano ad Attila tramite gli sciamani che perderà la battaglia ma ucciderà il capo nemico, giungono sul campo i Franchi di Meroveo, che nella notte chiara ingaggiano battaglia con gli odiati Gepidi. Si accendono mischie sparse in cui gli uomini si pugnalano e si fanno a pezzi al buio, senza neanche vedere il volto di vittime e carnefici. Lo scontro è di una ferocia spaventosa, tanto che solo in quella notte lo storico Giordane parla, sicuramente esagerando, di 30.000 morti. Al mattino dopo le due armate si schierano per la battaglia. Sembra più che altro un grande scontro fra etnie e tribù germaniche più che uno fra Unni e Romani. Infatti dalla parte di Ezio combattono Visigoti, Alani, Franchi sali, Sassoni, Burgundi e Armoricani, mentre Attila conta sul supporto di Rugi, Sciri, Turingi, Franchi, Eruli, Ostrogoti e altri Burgundi.
La prima mossa di entrambi i generali è di cercare di occupare una piccola altura, conquistata da Ezio prima di Attila. Il re degli unni, forse perché ricordando l'oracolo non vuole subire troppe perdite, non si affretta ad attaccare, lanciando i suoi cavalieri alla carica solo verso le tre del pomeriggio. Gli Alani scricchiolano sotto la pioggia di frecce e l'urto degli abilissimi cavalieri delle steppe, ma sono stati messi al centro da Ezio proprio perché sono in grado di contrastare le tattiche degli Unni, che vengono respinti con pesanti perdite. Intanto sul lato sinistro di Ezio i Gepidi, provati dai combattimenti notturni, non riescono a sfondare il muro di scudi romano-franco, nonostante il supporto di Rugi, Sciri e Turingi, e vengon incalzati dai disciplinati guerrieri.

Ma è sul lato destro che si scatena la strage peggiore, lo scontro fratricida fra i Goti. Le asce, le frecce e la lance si conficcano negli scudi e nei corpi dei guerrieri prima che le masse urlanti di Visigoti e Ostrogoti cozzano l'una contro l'altra come due valanghe d'acciaio e carne. Le asce spaccano scudi e crani, le lame mozzano teste e arti mentre il sangue scorre a fiumi fra i cumuli di cadaveri trucidati. Nella mischia cade il re Teodorico I, il capo la cui morte era stata annunciata dal vaticino, ma anche molti altri principi e signori trovano la morte. Vedendo le proprie linee scricchiolare e rischiare l'annientamento della propria armata, Attila fa suonare la ritirata per ritirarsi nel proprio campo, deciso a vendere cara la vita. Erige una pira funebre al centro del campo, deciso a buttarcisi dentro piuttosto che concedere a un nemico l'onore di averlo ferito.
Ma Ezio teme che senza gli Unni l'alleanza coi Visigoti avrebbe perso ragione di essere, e così congeda gli alleati Franchi e Visigoti e permette agli avversari di lasciare il campo senza ulteriori scontri.
Alla fine di quella giornata di sangue, secondo le fonti rimasero fra i 162.000 e i 300.000 morti, sicuramente un'esagerazione, ma che ci fa comprendere quale dovesse essere la portata del massacro.


Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?

Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.



https://bit.ly/2MkB1Zr

mercoledì 29 agosto 2018

Duri come la montagna, floridi come il mare: i Liguri



(Nell'immagine, Troy: last war of the Heroic Age. Utilizzata per sottolineare l'uso dell'arco, la presenza di fortificazioni, l'abbigliamento degli attaccanti di stampo etrusco e dei difensori liguri. Dovrebbe ricreare in tale uso un attacco da parte degli etruschi a uno dei castellieri del popolo ligure).

La popolazione dei Liguri ha un passato glorioso, il cui valore indiscusso per la storia d'Italia li ha portati ad essere legati ai miti greci e latini. Nelle Argonautiche Giasone dovette nascondersi ai liguri tramite incantesimi, nell'Eneide i liguri furono tra i pochi alleati di Enea nella guerra contro i Rutuli, Eschilo esalta le abilità militare di questo popolo guerriero. Le tribù ligure non si limitavano alla regione a cui hanno dato il nome, ma si espansero in lungo e largo per Italia, Francia, Spagna. Si attesta la presenza di liguri in Sicilia (tanto che gli scrittori romani consideravano i siculi e i sicani come discendenti dei liguri), in Toscana (Mugello e Casentino) in Corsica, in Sardegna, in Piemonte, nella pianura Padana e pure nella penisola Iberica e nelle Francia meridionale.

Con l'espansione celtica parte dei liguri dovettero arretrare nel territorio della Liguria oppure mescolarsi con i nuovi conquistatori (non sappiamo se vi furono conflitti o integrazione pacifiche). Genti come i Taurini, gli Insubri e i Leponzi devono molto della loro cultura ai liguri (nonché agli etruschi) e molto probabilmente erano essi stessi di origine ligure. La tecnica di costruzione dei castellieri, per esempio, è un tipico retaggio ligure, che si espansa per tutta l'Europa cosiddetta barbarica. La potenza e la ricchezza dei Liguri li ha portati ad avere contatti con Etruschi, Greci e Cartaginesi.

La politica espansionistica degli Etruschi fu proprio arginata dai Liguri, i quali resistettero alle spedizioni dei vicini per poi contrattaccare. è testimoniato che tutti gli insediamenti etruschi a nord dell'Arno (es. Pisa), venivano periodicamente assaliti e saccheggiati dalle tribù liguri delle montagne. Gli insediamenti etruschi a nord dell'Arno (es. Pisa), venivano periodicamente assaliti e saccheggiati dalle tribù liguri delle montagne Nel 500 a.c. ci fu la fondazione dell'oppidum di Genua, sviluppatasi come emporio etrusco dal castelliere ligure situato in località Castello. La città si dimostrò essere un importantissimo centro commerciale, tanto da ampliarsi già verso l'odierna Prè, sul rivo Torbido. I liguri presero presto il controllo di questo insediamento, strappandolo agli etruschi.

I Greci ebbero rapporti ambivalenti con i Liguri: la leggenda della fondazione di Massalia ha come protagonisti i liguri, che controllavano anche quei territori in epoca antica. Si racconta che dei coloni Focesi provenienti da Efeso incontrarono un sovrano ligure di nom Nannu, che li invitò a partecipare ad un banchetto. Durante questo la figlia del re, Gyptis, avrebbe scelto il suo sposo tra i commensali. La giovane espresse la sua preferenza per il greco Protis, grazi al quale i greci ebbero il permesso di fondare il loro emporio. La realtà dei fatti fu tuttavia diversa: dopo i primi anni di pace, i greci entrarono in conflitto con i liguri. La forza di questi impedì agli ellenici di espandersi, essi furono costretti a svilupparsi nelle attività commerciali (essendo tante tribù, i liguri non disdegnavano di commerciare con il nemico di un proprio cugino o alleato), che anche grazie ai Liguri divenne il più importante porto della Gallia. In area litorenea clan da segnalare sono i Genuati (Genova), gli Inguani (Albenga e Diano Marina, Verezzi), i Sabazi (Savona). In area montana importantissimi gli Apuani, situati nella Lunigiana, Garfagnana e Versilia. In Piemonte da segnalare gli Statielli di Alessandria, Bagienni della Valle del Tanaro e i Libui del basso Vercellese. Non sono da dimenticare poi i Sebobrigi di Marsiglia e i Corsi di Corsica.

Tra i V e IV secolo a.c. ci sono testimonianze di commerci esercitati dai Liguri con i popoli della Campania, con i Cartaginesi, con gli Ateniesi. Le tribù liguri dell'interno si dedicavano principalmente alla pastorizia, alla ricerca del metallo, alla caccia. Al contrario i clan costiero vivevano spesso di commercio (oltre a essere uno scalo commerciale, i loro paesi costieri producevano miele e vendevano pietre preziose) e di pesca. Sebbene descritti in alcuni casi come primitivi e selvaggi (non conoscevano la scrittura), i liguri arrivarono a commerciare anche la richiestissima ambra baltica, mentre sviluppavano una prima flotta, che i romani indicavano composta da marinai molto abili. Grazie alla loro abilità guerriera, i liguri delle zone più povere si dedicavano all'attività di mercenari, tanto da servire nei ranghi romani quali ausiliari durante le guerre in Africa contro Giugurta. La flotta ligure non disdegnava neppure la pirateria, attività molto comune nel mediterraneo antico.

Rimane ancora un mistero la loro origine: alcuni autori li considerano indoeuropei, altri pre indoeuropei. La prima si lega a un'origine pregallica, viste le similutidini con il popolo celtico, la seconda invece sostiene invece che i liguri siano come gli iberi eredi delle popolazioni sopravvissute alle migrazioni indoeuropee che calarono in Italia nel III millennio a.c. A prescindere da queste difficili elucubrazioni, sappiamo che i liguri ebbero tre periodi: un periodo pre indoeuropeo o proto indoeuropeo in cui parlavano una lingua del tutto scevra di elementi esterni; un periodo proto celtico (II millennio a.c.) e dal 1000 a.c. si parlerebbe una lingua mescolata tra celtico, etrusco e ligure. Tale retaggio molto forte rimase per tutta l'epoca romana, dove si parlò per lungo tempo di etnia ligure (ligures comati, per la loro abitudine di portare i capelli lunghi). Importanti elementi che distinguono la civiltà ligure da quella celtica (portandola ad assomigliare di più a quella nuragica) sono il pantheon divino e i castellieri.

1. Gli dei venerati dai Liguri, le cui incisioni e monumenti si possono trovare nei monti della Liguria e del Piemonte, erano i numi celesti della montagna, come Pen, Beg e Alb. Presente anche Il culto delle matronae acquatiche (come al santuario di Monginevro), delle divinità cornute e del misterioso re divinizzato di nome Cicnu. Solo dal VII secolo a.c. abbiamo corredi funebri simili a quelli celtici.

2. I Castellieri erano fortezze militari che controllavano la mezza costa e i passi montani. Al contrario degli oppidum non erano abitati da civili, ma rappresentavano presidi militari ed eventuale rifugio per le popolazioni minacciate. Ciò è sintomo di un grande sviluppo militare, che è provato dalla fama guerriera dei liguri e delle loro vittorie contro Romani, Etruschi e Greci. Sappiamo che, nonostante non fossero prestanti come i celti, i liguri sfruttavano appieno le tecniche di guerriglia, di tiro con l'arco e di attacco mordi e fuggi. Da segnalare la terribile disfatta che inflissero ai romani nella battaglia di Valle del Magra, nel 186 a.c.

Alla fine i Liguri vennero sottomessi dai Romani, dopo una lunghissima serie di conflitti di cui parleremo approfonditamente in un altro articolo, ma mantennero la propria identità per secoli. Alla caduta dell'impero i loro eredi si dimostrarono degni del loro passato glorioso: ancora adesso la Liguria è popolata da gente dura, abile, capace di affrontare le difficoltà come fecero i loro avi.


Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?

Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.



https://bit.ly/2MkB1Zr

martedì 28 agosto 2018

Khair ed-Din Barbarossa: protettore della fede e flagello del Mediterraneo (1476-1546)



L'eroe nazionale turco, fondatore della marina da guerra ottomana, invincibile ammiraglio di Suleyman e dominatore del Mediterraneo nacque a Mitilene (isola di Lesbo) nel 1476 da una famiglia di origine greco/albanese. Fu il primogenito della coppia, Aruc, ad iniziare l'attività piratesca nelle acque dell'Egeo con alterne fortune. Infatti, dopo essersi liberato dai cavalieri di Rodi che l'avano imprigionato e messo ai remi, raggiunse le coste dell'Africa Settentrionale, portando con sé il fratello Khizr, il futuro ammiraglio. La fama dei fratelli Barbarossa, così chiamati per la barba fulva di Aruc, crebbe insieme alle navi e agli uomini ai loro ordini. La cattura del porto di Djidjelli, fra Tunisi e Algeri, fu il primo passo della conquista della costa nord-africana. Caddero anche Cherchell e Algeri, ma non la fortezza del Penon, eretta dagli spagnoli sull'isola davanti alla città per controllare i traffici marini. Alcune città come Ténés e Tlemcen caddero, mentre altre, come Bugia, resistettero ai loro attacchi. Riconoscendo la difficoltà di contrastare sia le popolazioni locali sia gli spagnoli da solo, nel 1517 Aruc aveva deciso di collegare i suoi domini all'Impero turco, ricevendo dal sultano Selim I il titolo di beylerbeyi (capo dei capi) di Algeri, oltre alle truppe necessarie per reprimere una rivolta e respingere un attacco spagnolo.

Ma proprio nel corso di uno scontro con gli spagnoli, Aruc venne ucciso nel 1518. In memoria del fratello, Khizr iniziò a tingersi la barba di rosso con l'henné, raccolse la sua eredità e si apprestò a diventare il vero e unico Barbarossa.
Nonostante i giannizzeri al suo servizio, Khizr venne sconfitto da un esercito hafsida e dovette abbandonare Algeri, che riconquistò nel giro di pochi anni, dopo aver depredato le coste della Sicilia e del Meridione d'Italia. Fu a quel punto che ricevette il titolo di Khair ed-Din, ovvero "benefattore dell'Islam". Le sue scorribande terrorizzarono la Francia, la Spagna, l'Italia e chiunque dovesse navigare attraverso il Mediterraneo Occidentale. Nel 1526 una sua razzia in Toscana fu sventata dall'ammiraglio genovese Andrea Doria, che divenne la sua nemesi, e con il quale si sarebbe scontrato più volte.

Tre anni dopo, mentre i turchi si preparavano ad assediare Vienna per la prima volta, il Protettore della fede riprese l'offensiva contro le piazzeforti spagnole in Africa. Rase al suolo anche la fortezza del Penon, nonostante l'eroica difesa dell'esigua guarnigione spagnola, trasformando Algeri nella capitale della guerra di corsa nel Mediterraneo da lì fino ai tre secoli successivi. Le sue imprese, che annoveravano decine di navi cristiane catturate o affondate, la devastazione di innumerevoli città, porti e villaggi, il saccheggio di un bottino immenso e il successo nel contrastare spagnoli e genovesi gli procurò l'attenzione di Ibrahim, il visir del sultano Suleyman, grazie al quale ricevette la nomina di kapudan-i dayra, capitano del mare, ovvero comandante supremo della flotta ottomana. Dopo aver riorganizzato e potenziato la flotta del sultano, seminò il panico sul litorale occidentale della Penisola, arrivando a sfidare il rivale Andrea Doria sfilando quasi davanti al suo palazzo. Ma il suo obbiettivo era Tunisi, la cui caduta allarmò l'imperatore Carlo V, in quanto il porto era in una posizione strategica fondamentale per il controllo del canale di Sicilia. La poderosa flotta cristiana guidata dal Doria riconquistò la città e la consegnò al suo precedente signore, Mulay Hasan, mentre il Barbarossa si sottraeva allo scontro e ne approfittava per devastare i possedimenti nemici.

Lasciata Algeri nelle mani del suo pupillo di origini sarde Hassan Agha, ritornò nel Mediterraneo Orientale, dove a fare le spese delle sue incursioni furono i possedimenti veneziani, che caddero o vennero devastati dai suoi uomini. A causa di queste perdite, Venezia si alleò col papa Paolo III, che formò una Lega Santa per contrastare l'espansione musulmana. Le navi spagnole, pontificie e veneziane al comando di Andrea Doria ebbero però la peggio nella battaglia di Prevesa (1538), la più celebrata vittoria del Barbarossa. L'ammiraglio poté così continuare a saccheggiare e conquistare isole e fortezze spagnole, genovesi e veneziane, apparentemente invincibile. Non potendolo convincere ad unirsi a lui, Carlo V intraprese una spedizione contro Algeri nel 1541, guidata da Andrea Doria e Hernàn Cortés, che inutilmente provarono a convincere il sovrano a desistere dall'impresa. Infatti la stagione era pessima e l'attacco fallì. Ancora scosso dalla sconfitta, l'imperatore del Sacro Romano Impero si vide dichiarare guerra dallo storico rivale Francesco I di Francia, alleatosi col Turco.

Il comando dell'immensa flotta fu affidata al Barbarossa che risalì le coste imponendo riscatti e saccheggiando le città che non si piegavano alla sua volontà, come Reggio Calabria, salvata dall'invaghimento che prese l'ammiraglio per la giovane figlia del governatore. La flotta turca dunque assaltò Nizza,ma l'attacco si risolse in una razzia della città, mentre la fortezza resistette agli assalti della flotta franco-turca. Dopo aver svernato a Tolone e inviato squadre per razziare le coste spagnole, sulla via per tornare a Istanbul arrivò a minacciare Genova stessa, razziò le coste sarde, toscane, liguri, laziali e siciliane. Il vecchio ammiraglio, tornato nella capitale nel 1545, costruì un sontuoso palazzo e si ritirò per riposare e dettare le proprie memorie, cinque volumi noti come Gazavat-i Hayreddin Paşa. 
Morì nel suo palazzo l'anno successivo, stroncato da una violente febbre. 
La sua memoria divenne tanto venerata che ancora agli inizi del Seicento nessun viaggio di mare veniva intrapreso da Istanbul senza prima visitare la sua tomba e recitarvi la fatiha, preghiera propiziatoria del Corano.


Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?

Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.



https://bit.ly/2MkB1Zr

Dalle rive del Dora Baltea alla mitica "Taurasia": Salassi e Taurini




Nella Historia della città di Torino, il letterato seicentesco Tesauro parla di un antichissimo mito: Fetonte, figlio di Eridano (che era l'antico nome del Po), dopo aver lasciato l'Egitto giunse in Liguria, oltre la quale trovò una terra fertilissima, attraversata da fiumi come il delta del Nilo. Qui vivevano numerose genti per nulla barbariche, tra cui spiccavano gli adoratori del dio Api, venerato sottoforma di Toro. Il nome di questo popolo, situati nella fantomatica Taurasia, era i Taurini, incontrastati signori del Piemonte centrale. Ma chi erano davvero i Taurini?
Le fonti archeologiche descrivono un popolo che visse in autonomia dal VII secolo a.c. al III secolo a.c. tra la confluenza del Po e la Dora Riparia, nell'area occupata attualmente dalla città di Torino. Le origini di questo popolo sono abbastanza chiare: essi non erano nient'altro che una tribù dei Liguri entrata in contatto con i clan celtizzati, in particolare i Salassi con cui confinavano a nord, e che per questo si distaccarono negli usi e nei riti dai cugini Liguri del sud. Per Plinio e Strabone essi erano infatti definiti come dei Semi-Galli.Al contrario i Salassi, che popolavano la Valle D'Aosta e il Canavese, sembra appartenessero alla cultura di La Thene, di chiara discendenza celtico/gallica. Essi si sarebbero espansi sul finire del VI secolo a.c. calando da nord ed entrando i contatto con i Taurini: qui le fonti sono discordanti. Alcune parlano di terribili conflitti armati, altri di convivenza pacifica. Eppure, quando il potere di Roma e di Cartagine scombussolarono queste regioni, i Salassi e i Taurini si trovarono in due fronti diversi: I Taurini con Roma, i Salassi e gli Insubri dalla parte di Annibale.
Entrambe le popolazioni sono considerate essere le fondatrici di due importanti città. I Taurini avevano come capitale la mitica Taurasia (O Taurinia), che gli storici tendono a situare nella Vanchiglietta dell'odierna città di Torino. Si ricorda inoltre che le truppe di Annibale saccheggiarono Taurasia durante la sua calata verso Roma, poiché non si era piegata alle richieste cartaginesi. Lo stesso nome dei Taurini avrebbe un significato interessante: esso potrebbe derivare dalla radice indeuropea taur, affiancata da alcuni alla voce greca ορος (montagna) da altri al sanscrito sthur (robusto). Forse la collocazione della città dei Taurini nel cuore delle montagne Piemontesi potrebbe essere la ragione di questo nome così imperioso.I Salassi fondarono invece la città di Eporedia, intitolata alla divinità celtica Epona, madre dei cavalli. Dopo la conquista romana il nome si tramutò in Iporea, quindi divenuto l'attuale Ivrea. I Salassi veneravano anche il dio Penn, protettore dei pericoli delle montagne, le cui statue scavate nella roccia si possono ancora vedere in Piemonte e in Liguria (segno di come il dio fosse venerato anche a sud).
I Taurini, secondo Plinio, erano dediti alla selvicoltura, nonché alla coltivazione di alcune varietà di segale quale l'asia e l'aravicelii. Similmente ai liguri non praticavano le tipiche scorrerie celtiche, bensì si dimostrarono più propensi a conflitti in chiave difensiva. Nonostante ci sia giunto poco di loro, è probabile che fossero usi alla costruzione di fortezze come i cugini costieri. Sia Taurini che Salassi sono descritti come abili cavalieri, tanto che prestarono forze di cavalleria alle fazioni in guerra durante i conflitti punici. Era uso di queste genti, come i galli a nord, affiancare il cavaliere da un fante che correva appresso al cavallo tenendosi per la criniera. Una volta giunto in battaglia, il fante supportava il compagno a cavallo, cercando di ferire le zampe del destriero nemico.I Salassi sono considerati dai romani come un popolo più selvaggio e bellicoso dei Taurini, ma è probabile che siano semplici damnatio memoriae causate dall'inimicizia tra i due popoli.
La lingua Taurina non è giunta a noi, almeno non in forme originali, facendo tendere gli storici per un'idioma di origine ligure. Al contrario la lingua Salassa risulta molto interessante: sebbene parlassero una lingua di origine gallica, i legami con il dialetto leponzio e insubre hanno portato a modifiche rilevanti, ancora sopravvissute nel dialetto attuale. Termini quali Bletsé (mungere), Brèn (crusca) e Daille (pino silvestre), come molti altri, sono tutti riconducibili alla pre romanizzazione. Infine sono tanti i toponimi di derivazione celtica (questo come in tante altre aree del nord Italia): Dora (Dora Baltea), Bar, da cui Bard, e Bardonecchia (Borgo fortificato).
I Taurini, dopo all'alleanza con Roma, mantennere un proprio regno indipendente sotto la guida del Re Cozio fino a circa il I secolo a.c. per poi unirsi al dominio Romano con la fondazione di Iulia Taurinorum (Torino), nel 28 a.c. Gli attuali piemontesi, con le chiare influenze francesi e romane, sono diretti discendenti del popolo del Toro. Per i Salassi la conquista fu più drammatica: sconfitti in battaglia nel 143 a.c. resistettero per decenni alla penetrazione dei romani e degli alleati insubro/taurini, finché, con le campagne di Augusto e il rastrellamento operato da Messalla Corvino, vennero definitivamente sottomessi circa nel 25 a.c.
Ma di questa campagna militare così densa di eventi ne parleremo specificatamente in un altro articolo.
Fonti:Le Alpi nel mondo antico, Ralph E. Martin.Storia della Prima Italia, Massimo Pallottino.Preistoria e Storia delle Regioni D'Italia, Gianna G. ButiSulle tracce dei salassi. Origine, storia e genocidio di una cultura alpina. Massimo Centini.


Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?

Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.



https://bit.ly/2MkB1Zr

venerdì 24 agosto 2018

Domenica di sangue a Villa Corsini: Roma, 3 giugno 1849




Il fuoco che si era propagato attraverso l'Europa nel fatale 1848 sembrava ormai essere stato domato dalle forze reazionarie e conservatrici. Ma nell'Italia che si era sollevata per rivendicare maggiori diritti e la libertà dallo straniero, ancora due città restavano a farsi portabandiera delle aspirazioni liberali: Venezia e Roma. 
Dopo la fuga di quello che era sembrato in un primo momento un papa liberale, Pio IX, era stata proclamata la Repubblica Romana, un laboratorio di idee progressiste e liberali come il suffragio universale maschile, l'abolizione della pena di morte e la libertà di culto. Ma il pontefice non si era rassegnato alla perdita del potere temporale, e in seguito al suo appello, ben quattro forze di invasione erano calate sull'Italia centrale per ristabilire il dominio del papa: da nord un'armata austriaca, da sud i napoletani con gli spagnoli, mentre dal mare erano giunti i francesi del generale Oudinot.

In barba alla costituzione della repubblica francese, che prometteva di "non adoperare mai le sue forze contro la libertà d'alcun popolo", il corpo di spedizione transalpino marciò speditamente contro la Città Eterna, convinti dello stereotipo che "gli italiani non si battono". L'ottimismo francese però svanì quando il 30 aprile il primo assalto si infranse contro le porte di Roma, difese dei risoluti volontari pure addestrati sommariamente e armati assai peggio degli assalitori, considerati ancora i migliori soldati del mondo. Garibaldi, il poncho bianco e la spada sguainata, guidò un contrattacco alla baionetta talmente violento da mettere in rotta i francesi che lasciavano sul campo centinaia di morti e un numero superiore di prigionieri. Beffardo, il proclama della Commissione delle Barricate annunciò il giorno dopo «l'ingresso dei francesi in Roma cominciò ieri; entrarono per porta S. Pancrazio in qualità di prigionieri».

Consapevoli di non poter prendere la città con la facilità sperata, i francesi intavolarono trattative per stabilire una tregua, accettata senza esitazioni dal governo repubblicano che doveva anche occuparsi dei napoletani che avanzavano da sud. Nel corso del mese di maggio Garibaldi respinse le forze partenopee con le battaglie di Palestrina e Terracina, riuscendo a farle desistere dal muovere sull'Urbe. Intanto i francesi mascheravano con la diplomazia i loro preparativi: erano giunti tali rinforzi da far arrivare il contingente a 30.000 soldati dotati di un'imponente parco d'artiglieria. Secondo quanto concordato, le ostilità sarebbero riprese il mattino del 4 giugno. Tuttavia, alle 3 del mattino del 3 giugno, tradendo la parola data, le colonne francesi assaltarono le ville su cui si imperniava il sistema difensivo della città, scacciando i difensori sorpresi da Villa Pamphilj per poi attaccare anche Villa Corsini. Per i francesi il possesso del Gianicolo era fondamentale, in quanto avrebbe permesso di bombardare impunemente l'intera città. Proprio per impedire ciò, quel 3 giugno si scrisse una delle pagine più sanguinose del Risorgimento.

Per tutto il giorno si procedette fra attacchi e contrattacchi, con l'edificio preso, riperso, e poi preso di nuovo. I patrioti si slanciavano a piedi o a cavallo su per le scalinate della villa, incuranti del micidiale fuoco nemico che proveniva da ogni finestra, siepe, muretto e porta. Negli spazi angusti le armi da fuoco diventavano inutili e si scatenavano micidiali mischie in cui gli uomini si facevano a pezzi con coltelli, baionette, pietre, unghie e denti. Gli italiani scacciavano i francesi dalle barricate erette con i cadaveri per poi essere di nuovo respinti dalla ben piazzata artiglieria transalpina. Cadde Angelo Masina, comandante dei lancieri della morte, che ferito, si rigettò nella mischia. Venne mortalmente ferito Goffredo Mameli, circondato dai compagni che cantavano il suo Canto degli Italiani. Il sergente Manfrin dei bersaglieri, ferito gravemente, rispose al colonnello Manara che lo esortava a ritirarsi, con «Lasciatemi stare colonnello, almeno faccio numero» e cadde sotto al fuoco nemico. Caddero pure i varesini Francesco Daverio ed Enrico Dandolo. Il colonnello Manara scrisse «Vorrei ad uno ad uno potervi raccontare i fatti memorabili di quella giornata, in cui, giovinetti già con due o tre ferite nel corpo, vollero combattere ancora e morire gridando, viva la repubblica!; altri vedere rassegnati cadere il fratello, l'amico, e spingersi ancor più arditi contro il fuoco nemico».
«Gli italiani non si battono». «l'Italia è un'espressione geografica», «gli italiani non hanno coraggio». Parole cancellate dal sangue, 
«…la lunga lista rossa come un tappeto rosso che dalla Porta San Pancrazio giungeva fino alla porta dell’ambulanza della larghezza di circa un metro e ottanta centimetri. Questo tappeto era il sangue che colava dalle barelle che trasportavano i morti e i feriti…» (A. Ciabattini).

Seppure dal punto di vista militare i ripetuti assalti di piccole unità furono un errore costoso, in quanto in molti caddero per la mancata riconquista di una posizione indifendibile, dal punto di vista ideologico la giornata del 3 giugno fu un olocausto di sangue per la causa rivoluzionaria, una pagina drammatica che però rafforzò in tutti la volontà di combattere. Fu proprio il sacrificio di tanti giovani a rimuovere definitivamente le aspirazioni nazionali dal terreno dell'utopia e rafforzare in tutti gli italiani la coscienza di un diritto tante volte negato. Come scrisse Manara in una lettera pochi giorni prima di cadere anch'esso «Noi dobbiamo morire per chiudere con serietà il Quarantotto; affinché il nostro esempio sia efficace, dobbiamo morire».

I combattimenti proseguirono aspri per tutto il mese di luglio, coi francesi che bombardarono la città stessa per costringere i romani alla resa. Stretti da forze soverchianti, per evitare alla popolazione la battaglia in città e il saccheggio, le forze repubblicane decisero di arrendersi, ma solo dopo aver promulgato come ultimo atto la Costituzione. Dopo che Garibaldi fu uscito da Roma col celebre discorso in cui offriva soltanto «... fame, freddo, marce forzate, battaglie e morte» seguito da 4.000 volontari, i francesi entrarono in Roma fra i "chicchirichì" di scherno degli abitanti. Terminava così la Repubblica Romana, e dopo la caduta di Venezia, il primo, grande tentativo italiano di liberarsi dal giogo dello straniero e della tirannia.

Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?

Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.



https://bit.ly/2MkB1Zr

giovedì 23 agosto 2018

Le furie delle Alpi Orientali: i Camuni, Carni e Reti



I Camuni della Val Camonica, i Carni del Friuli e i Reti del Tirolo e Trentino sono popoli misteriosi, che hanno lasciato dietro di sé ben poche tracce oltre al ricordo e al sangue che ancora alberga nei loro discendenti. Le origine delle tre stirpi, che si pensa si fossero mescolate più volte fra loro, è complicata: i Reti parlavano in una lingua a metà tra l'etrusco e il celtico, ma sembra fossero autoctoni e non legati alle migrazioni del IV secolo a.c. I Carni invece erano di origine celtica, arrivati appunto sull'arco alpino nel quarto secolo, dopo una lunga discesa dalla Carinzia (che prende il nome da loro) e dalla Slovenia occidentale. I Camuni infine erano strettamente imparentati con i Reti, nonostante Plinio il Vecchio li definisse come Euganei, un mitico popolo che si sarebbe mescolato ai vicini Reti dopo l'invasione da parte dei Veneti. Invasione su cui però vi sono numerosi dubbi. Certo che una cosa accomunava queste tre popolazioni, oltre che la lingua e la cultura comune: la forza dei suoi guerrieri d'alta quota.

Con base in Val di Non, probabilmente nell'attuale paese di Sanzeno dove sono stati trovati numerosi reperti archeologici, le tribù più bellicose dei Reti (chiamate dai romani Rucanti e Cotuanti) sferravano continui attacchi contro gli Insubri, i Leponzi di Lugano e i Veneti dell'antica Vicenza, forse per recuperare il bestiame necessario a sostentarsi per i rigidi inverni alpini. Dopo di ché compivano grandi sacrifici alla loro dea comune Reitia, misteriosa divinità femminile venerata pure dai vicini Veneti. Si pensa che il nome Reti nasca proprio da questo culto comune, sebbene non si possa avere alcuna certezza documentale.
I reti erano così feroci da aver strappato ampie porzioni di territorio agli altri popoli del Nord Italia, il che sarebbe dimostrato da iscrizioni in lingua retica trovato in Alto Adige, Veneto, Valle Engadine e pure nei Grigioni Svizzeri.
Da notare che, proprio come l'etrusco, la lingua retica non aveva la lettera O.

I Carni popolavano il Friuli insieme agli Histri e ai Giapidi (definiti dai romani come tutti Euganei), tanto da formare insieme a loro gran parte dell'etnogenesi dell'attuale popolo dell'intero Friuli Venezia Giulia. Usi a costuire fortificazioni alla ligure conosciute come Castellieri, vi sono teorie che pensano a un'ascendenza ligure di queste genti, poi mescolate con veneti, autoctoni e celti. Grandi guerrieri, affrontarono più volte i vicini Veneti e forse militarono anche come mercenari nelle armate Illiriche della regina Teuta durante gli scontri con Roma del 228 a.c. Ciò è comprovato pure dal fatto che i Romani conoscessero bene il valore di queste genti, soprattutto grazie alle descrizioni che gli alleati veneti fornivano spesso e volentieri. Fondata Aquileia nel 181 a.c. iniziò la decadenza dei Carni, che vennero sconfitti in battaglia nel 115 a.c. dai Romani. Tuttavia la gente del Friuli restò fiera e indipendente fino al 50 a.c. quando Cesare conquistò il loro territorio fino al Cadore. Ma ciò non bastò, tanto che nel 35 a.c. i Carni si ribellarono ancora contro l'autorità imperiale, per poi essere assorbiti definitivamente nel 33 a.c.

I Camuni hanno lasciato di sé un ricordo importantissimo: le incisioni rupestri della Val Camonica. Tale tradizione, durata fino alla fine del Medioevo, ci ha permesso di ricostruire con grande accuratezza l'evoluzione di questo popolo di origine Retica. Nel V secolo a.C ebbero contatti con gli Etruschi e gli Insubri della pianura Padana: tracce d'influenza si notano nell'alfabeto camuno, molto simile agli alfabeti nord-etruschi (es. quello Insubrico). Il popolo Camune, inteso nella grande area dei popoli Retici, ebbe la sua sfera d'influenza anche sui monti sopra Verona e sopra Como.
Verso il III secolo a.C. giunsero in Italia popolazioni celtiche che, provenendo dalla Gallia transalpina, si stabilirono nella Pianura padana ed entrarono in contatto con la popolazione camuna: lo testimonia la presenza, tra le incisioni rupestri della Val Camonica, di figure di divinità celtiche quali Cernunnos.

Da notare come tutti e tre popoli non vennero assoggettati e travolti dai galli come si era prospettato, bensì vi fu un'assimilazione pacifica, almeno, non sempre. Infatti è probabile che gli stessi Galli furono respinti da questi duri popoli Alpini, capaci di sfruttare l'altitudine per difendersi e sferrare furibondi attacchi, causa per cui i galli dovettero passare oltre queste regioni senza conquistarle. Rimangono però congetture, poiché non abbiamo alcuna rilevanza archeologica. Tuttavia, conoscendo la bellicosità di questi popoli, non è lontana dalla realtà.

Le genti delle Alpi vennero assoggettate dai romani molto tardi rispetto ai loro cugini di valle: dopo ripetuti attacchi dai parte dei Reti e dei Camuni, Augusto organizzò una spedizione guidata da Druso e Tiberio, che nel 15 d.c. aveva ormai sottomesso l'intero territorio. Numerosi Reti e Camuni vennero deportati verso sud, andando a mescolarsi con la gente del Veneto, del Bergamasco, del Bresciano e del Friuli. Eppure la memoria di queste genti non è mai svanita.
La lingua ladina e quella friulana sono debitrici degli idiomi parlati da questi popoli, ma è soprattutto nell'arte della guerra montana che ancora lo spirito delle genti dei monti a vivere ancora nell'animo degli italiani.
Dopotutto... chi sono i nostri Alpini se non gli eredi spirituali di questi cacciatori delle vette?

Fonti
I Camuni, alle radici della civiltà europea, Emmanuel Anati.
Le Alpi nel mondo antico, Ralph E. Martin.
Storia della Prima Italia, Massimo Pallottino.
Preistoria e Storia delle Regioni D'Italia, Gianna G. Buti

Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?

Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.



https://bit.ly/2MkB1Zr

mercoledì 22 agosto 2018

Fra storia e mito: i ninja




Nella cultura popolare gli shinobi-no-mono, abbreviato più spesso in shinobi, sono rappresentati come misteriosi guerrieri vestiti di nero in grado di compiere imprese che rasentano il magico e il soprannaturale. Il termine "shinobi", o il più popolare "ninja", perché più facilmente pronunciabile da noi occidentali, significa essenzialmente "colui che si nasconde". Infatti questi guerrieri mercenari, caso unico della storia del Giappone feudale, agivano come infiltratori, esploratori, sabotatori e assassini, usando una varietà di equipaggiamenti e tecniche ritenuti disonorevoli secondo la mentalità giapponese.

Tipicamente, il ninja viene rappresentato con l'ormai canonico costume nero, non dissimile dal kimono di un praticante di arti marziali. Sebbene un vestito nero o blu scuro potesse essere molto utile per non essere avvistati di notte, non ci sono prove a sufficienza per sostenere che questa fosse "l'uniforme" del ninja. All'origine di questa credenza ci sono le rappresentazioni ottocentesche, che prendevano in prestito dal teatro Bunraku il concetto di vestire di nero un personaggio per rappresentarne metaforicamente l'invisibilità. È certo invece che il ninja si travestisse da contadino, soldato, monaco, viandante e da altre figure per infiltrarsi e non farsi riconoscere. Andare sempre in giro vestiti di nero sarebbe stato l'equivalente di far sapere al mondo di essere un agente segreto, dopotutto. Sotto i vestiti talvolta portavano delle armature di cuoio o di cotta di maglia, molto utili in caso di combattimento.

Secondo le leggende, "l'antenato" dei ninja sarebbe il semi-leggendario principe Yamato Takeru, assassino abilissimo vissuto nel IV secolo. Già nel VI e X secolo troviamo testimonianze sull'impiego di spie, ma fu solo nel XV secolo che emerse la parola "shinobi" per descrivere l'agente segreto addestrato e specializzato nelle arti furtive. Fra il 1485 e il 1581 gli uomini delle provincie di Iga e Koga fornivano i più celebri shinobi a chiunque potesse pagare, non essendo vincolati ad alcun signore feudale. Le loro strutture gerarchiche erano incentrate sulle tradizioni familiari e si rifacevano alla guida di uno shonin (qual era il famoso Hattori Hanzo), che a sua volta si affidava a chujin per gestire gli affari intermedi, mentre i genin erano coloro che di fatto agivano sul campo e stavano in fondo alla gerarchia.

L'addestramento di un genin era durissimo e partiva dall'infanzia. Tipicamente, il guerriero imparava dal padre le abilità necessarie che andavano dalla conoscenza delle arti marziali e dell'uso di svariate armi fino alle tecniche di sopravvivenza in campo aperto. Inoltre, un ninja doveva conoscere come usare la polvere da sparo, tracciare mappe, scrivere e leggere messaggi, impersonare alla perfezioni il ruolo che avrebbe usato per travestirsi e apprendere le tecniche segrete per superare qualsiasi tipo di ostacolo. Proprio le più strane e acrobatiche di queste manovre, che permettevano a un uomo di apparire in grado di camminare sull'acqua o spiccare il volo, hanno dato origine a molte delle credenze che dipingono i ninja come super-uomini dotati di poteri sovrannaturali.

L'arsenale dello shinobi era altrettanto inusuale e prevedeva una grande varietà di ingegnosi arnesi per scalare le mura di un castello e aprire varchi in vari materiali. Fra questi vi era il kunai, che a differenza di quanto si pensa, era usato principalmente per aprire buchi nei muri d'intonaco dei castelli. Altri strumenti utili erano rampini, scale estendibili, triboli, bombe e le famose "stelline ninja", gli shuriken. Il ninja poteva ricorrere a una grande varietà di armi per compiere la sua missione, dalle tipiche armi quali spada, lancia e arco fino ai disonorevoli veleni o le potenti armi da fuoco. Nel 1573, per esempio, tre ninja provarono a uccidere Oda Nobunaga sparandogli con dei cannoncini, uccidendo invece 7 dei suoi compagni.

Il signore della guerra non dimenticò l'affronto e nel 1581 attaccò e mise a ferro e fuoco Iga e Koga, provocando la dispersione dei ninja. Il clan Tokugawa fu abbastanza lungimirante da prenderli al proprio servizio, terminando così la loro tradizione di mercenari. Gli altri daimyo invece dovettero adattarsi ad addestrare da sé i propri shinobi, tanto che divenne una vera e propria professione. Con l'unificazione del Giappone e il declino degli scontri interni, il ruolo di questi agenti segreti andò perdendo importanza, anche se furono impiegati durante la ribellione di Shimabara nel 1637-38. L'ultimo utilizzo di shinobi da parte del governo giapponese pare risalga al 1853, quando le "navi nere" degli americani "invitarono" il Giappone ad aprirsi al mondo. In quell'occasione il ninja Sawamura Jinzaburo venne inviato a bordo per scoprire le vere intenzioni dei nuovi venuti, ma il documento che recuperò risultò essere la lettera di un semplice marinaio.

L'alone di leggenda che avvolge questi guerrieri mercenari ha probabilmente origine nella trasposizione mitica che è stata fatta anche della controparte del ninja, il samurai. Mentre il guerriero feudale è diventato un simbolo incarnante l'ineguagliabile abilità con la spada e l'incorruttibile integrità morale e spirituale, la figura del ninja è stata in parte trasposta nel mito, dove ha assunto le caratteristiche, spesso fantasiose, che siamo abituati ad associare a questa figura.

Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?

Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.



https://bit.ly/2MkB1Zr

martedì 21 agosto 2018

Gli Insubri, i misteriosi fabbri del Nord Italia



L'origine etnica degli Insubri si perde nella notte tempi, senza che gli storici siano riusciti a venirne ancora a capo: alcuni ritengono fossero di origine celtica, giunti in Italia durante la grande migrazione del VII secolo a.c. Altri ritengono invece siano autoctoni, un mix culturale tra la cultura di Golasecca (VA) e il popolo dei Liguri. Poiché sembra che le tradizioni culturali di questo popolo siano rimaste le medesime per lungo tempo, anzi pare che si siano evolute proprio grazie a una convivenza pacifica con i popoli montani, le tribù celtiche di passaggio, i veneti e gli etruschi emiliani, negli ultimi anni l'ipotesi dell'assimilazione piuttosto che dell'invasione da parte dei celti ha guadagnato numerosi consensi.

Sebbene i romani considerassero gli Insubri i signori dell'intero nord Italia padano, il territorio degli Insubri andava con tutta probabilità dal lago di Lugano alla città di Mediolanum, che secondo le leggende fu fondata da questo popolo. Centri molto importanti furono Angera (VA), Golasecca (VA), Varese (VA), Brescia (poi occupata dai Cenomani) forse anche la stessa Bergamo e Como. Gli insubri parlavano una lingua complessa, che gli storici hanno ricostruito sulla base delle risultanze di due alfabeti: quello di Lugano (derivato dall'alfabeto nord Etrusco) e quello Leponzio del II e I a.c. Ciò non fa altro che confermare come gli Insubri si fossero perfettamente mescolati agli altri popoli italici, senza i devastanti conflitti che invece Tito Livio sembrava avvalorare.
Come in tutte le aree regionali italiane, le ricerche di campioni di sangue hanno rivelato che la maggior parte degli abitanti della zona possiede ancora dna insubrico/golasecchiano, segno di come la civiltà romana e poi quella longobarda non abbiano sostituito la popolazione originaria. Molte aree del Nord Italia, come le zone di Brescia non erano propriamente sotto il controllo degli Insubri, ma avevano con essi importanti rapporti sia commerciali che, forse, di vassallaggio.

Benché risultanza avvolta nel fumo nebuloso che circonda i miti, pare che gli Insubri fossero famosi per essere degli abilissimi armaioli: i fabbri Trumplini della Val Trompia pare avessero forgiato per loro grandiose armature (valle popolata fin dal 8000 a.c. e rimasta indipendente fino al 15 a.c.) e i fabbri della città di Mediolanum ne avessero imparato i segreti. Queste tecniche di forgiature furono poi imitate dai romani, sia dopo i primi scontri che dopo la conquista della regione. La foggia degli elmi e delle corazze di maglia dei legionari romani di epoca tardo repubblicana devono molto al contributo dei fabbri dell'Insubria, che continuarono a operare per tutto il periodo romano. Non solo! Milano rimase un importante centro di armeria anche nel medioevo. E nella Val Trompia si forgiarono armi per tutto il medioevo, si crearono le prime armi da fuoco e ancora adesso indovinate di dove è originaria la Beretta?
Poiché i Trumplini vennero deportati in massa dopo la loro sconfitta per mano dei romani, ci sono teorie che credono che il loro territorio disabitato venne colonizzato da abitanti provenienti dall'Insubria, forse gli unici a poter portare avanti le tecniche per forgiare le leggendarie armature.

La società degli Insubri, dalle poche risultanze che si possiedono, pareva essere strutturata sulla base di una aristocrazia militare, che aveva al suo culmine un re. Questo primus inter pares doveva avere un governo molto forte di un territorio ampio (grande differenza rispetto ai normali celti, ma ben più simile ai vicini etruschi) poiché a Clastidium il dux insubrorum Viridomaro (forse re o forse generale) schierava un intero esercito insubre ai suoi soli ordini. Alcune immagini di presunte druidesse trovate in Piemonte, insieme ai tanti dolmen e pietre coppellate sparse per il territorio Lombardo-Piemontese, assimilano la religione Insubre a quella celtica e a quella ligure. La presenza di sacerdotesse donne, che gli stessi romani indicavano come abili guaritrici e maestre dell'erboristeria, confermerebbe un'importanza femminile nella società insubre, che rimase tale fino al rinascimento. Basta pensare ai tanti processi contro le streghe che si tennero nel 1500 nel territorio dei laghi per capire quanto fosse radicata questa tradizione femminile ormai perduta.

Gli insubri erano maestri della fanteria, guerrieri corazzati che affrontavano il nemico con muri di scudi e piogge di giavellotti e proietti. Temuti soprattutto per le loro armature sopraffine, gli Insubri combatterono contro Roma a fianco di Annibale. Nella battaglia del Lago Trasimeno il console romano Flaminio, che cinque anni prima aveva distrutto Milano, venne ucciso da un cavaliere insubre di nome Ducario. Gli Insubri vennero definitivamente sottomessi nel 194 a.c. tramite un'alleanza tra i due popoli. Da quel giorno gli Insubri divennero fedelissimi alleati dell'Urbe, tanto da ricevere la cittadinanza latina solo nell'89 a.c. e quella romana nel 49 a.c.
La X legione Veneria, così amata da Giulio Cesare, aveva buona parte dei suoi soldati reclutati appunto nel territorio degli Insubri.

Fonti principali
Gli Insubri, di Adriano Gasponi 2009
La Romanizzazione degli Insubri, di M. Teresa Grassi, 1995
Celti D'Insubria, di Venceslav Kruta 2004

Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?

Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.



https://bit.ly/2MkB1Zr

lunedì 20 agosto 2018

L'arresto dell'espansione italiana: Adua (1 marzo 1896)


L'imperatrice Taitù Batùl guida gli etiopi in battaglia.

Sul finire dell'Ottocento, il secolo dell'imperialismo e della corsa alla conquista del mondo, in Africa erano rimasti solo due stati non controllati da una nazione europea: la Liberia e l'impero etiope, conosciuto anche come Abissinia. La giovane nazione italiana, desiderosa di reclamare una fetta della torta africana per trarne risorse e prestigio, aveva acquisito negli anni precedenti la Somalia italiana e l'Eritrea. I rapporti con il "negus" (imperatore) Menelik II erano stati in teoria stabilizzati col trattato di Uccialli, col quale il sovrano etiope acconsentiva a cedere alcuni territori in cambio di assistenza finanziaria e militare da parte del governo italiano.

Ma l'articolo 17 del trattato diede adito a un'accesa disputa. Infatti, secondo l'interpretazione italiana, Menelik accettava di intrattenere rapporti diplomatici con altre nazioni solo attraverso la mediazione italiana, rendendo di fatto l'Etiopia un protettorato, mentre invece gli etiopi affermavano che nella versione in aramaico era implicato che l'Italia veniva riconosciuta quale interlocutrice privilegiata, ma non unica. Le relazioni fra le due nazioni peggiorarono sempre di più, fino a quando il negus non ripudiò il trattato di Uccialli nel 1893, quattro anni dopo la sua firma, reso più sicuro dall'imponente quantità di armi che aveva accumulato in vista di uno scontro con i vicini.

Per prima cosa gli italiani tentarono di convincere i vari potenti locali che componevano il mosaico feudale nel quale era ancora inserita la società etiope a voltare le spalle al negus, non ottenendo il risultato sperato. Infatti Menelik era riuscito a unire le diverse tribù e popolazioni, spesso in lotta fra loro, sotto una sola bandiera per respingere l'odiato invasore bianco. Non potendo contare sulla collaudata tattica del divide et impera, gli italiani scelsero di ricorrere alla forza militare, dando inizio alla prima guerra italo-etiopica.

Le truppe italiane riuscirono a sopprimere una rivolta scoppiata in Eritrea, ma non poterono impedire che le enormi forze messe in campo dal negus e armate con moderni equipaggiamenti sconfiggessero gli italiani ad Amba Alagi e Meqele. Il governatore dell'Eritrea e comandante in capo Oreste Baratieri contava di poter attirare le forze di Menelik in una trappola, ben consapevole che gli oltre 100.000 guerrieri del negus avrebbero esaurito le risorse locali da lì a breve. Ma che un'armata europea tentennasse di fronte a degli africani considerati inferiori era intollerabile per le autorità romane: Crispi stesso inviò un telegramma furioso in cui esortava Baratieri ad attaccare e disperdere le forze nemiche.

Il piano del generale italiano richiedeva tempismo, buona conoscenza del territorio e un'eccellente sincronia fra i vari reparti. Tre delle quattro brigate disponibili avrebbero dovuto marciare parallelamente, in modo da potersi coprire a vicenda con un mortale fuoco incrociato, mentre la quarta sarebbe rimasta di riserva. Una volta guadagnato il vantaggio del terreno sopraelevato, gli italiani avrebbero dovuto attaccare il nemico ancora addormentato e farne scempio. Con questi ordini nella notte fra il 29 febbraio e il 1 marzo partirono le tre colonne, che, a causa della asperità del terreno, delle mappe poco precise e della mancanza di coordinamento e informazioni, si allontanarono troppo e rimasero isolate.

Il negus, avvisato tempestivamente dalle proprie spie, riuscì a portare le proprie truppe in una posizione vantaggiosa per l'artiglieria, che alle 6 del mattino aprì il fuoco sugli ascari del generale Matteo Albertone, della brigata di centro. Per due ore i soldati africani comandati dagli ufficiali italiani si difesero strenuamente, ma quando Albertone venne catturato gli ascari ruppero i ranghi e cercarono di raggiungere la brigata del generale Arimondi. Ondate su ondate di etiopi, soldati coraggiosi e avvezzi al combattimento corpo a corpo, assalirono i soldati di Arimondi senza successo, tanto che già gli italiani speravano di poter comunque strappare la vittoria dalle fauci della sconfitta, quando Menelik inviò la sua riserva di 25.000 guerrieri, il cui attacco travolse i difensori. Il generale Dabormida tentò di portare la sua brigata in soccorso del fianco sinistro in difficoltà, ma non poté raggiungere Arimondi in tempo, iniziando invece una ritirata combattuta. A causa della scarsa conoscenza del terreno e della fretta, le truppe italiane si infilarono in una stretta valle dove vennero attaccate senza pietà dalla cavalleria degli Oromo.

Baratieri si trovò a doversi difendere dalle forze soverchianti con quello che restava dei suoi 17.000 uomini, ma entro mezzogiorno le ultime sacche di resistenza erano state disperse sui pendii del monte Belah. Fu per noi una sconfitta devastante: sul campo rimanevano 7.000 morti (metà italiani, metà ascari), 1.500 feriti e 3.000 prigionieri, contro 5.000 morti etiopi e 8.000 feriti. Il tasso di perdite di questa battaglia fu il peggiore di tutto il XIX secolo, superiore anche a quello delle battaglie napoleoniche più sanguinose. I nostri prigionieri furono trattati bene (nei limiti delle condizioni presenti), mentre invece gli ascari, considerati traditori, ebbero una mano e un piede mozzato come punizione. Invece di inseguire i resti delle forze italiane, Menelik si affrettò a concludere un trattato di pace e il trattato di Addis Abeba, molto più favorevole del precedente agli etiopi.

La sconfitta generò in patria un'ondata di malcontento e rabbia che portò alla caduta del governo Crispi, accusato di aver gettato milioni di lire e la vita di migliaia di giovani per condurre delle folli avventure estere. Vendicare l'umiliazione di essere stati gli unici europei a venire sconfitti dagli africani fu uno dei principali temi su cui fece leva la propaganda fascista quando gli italiani tornarono 40 anni dopo, con una superiorità di mezzi ed equipaggiamenti schiacciante che portò all'occupazione quinquennale dell'Abissinia.


Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?

Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.



https://bit.ly/2MkB1Zr

domenica 19 agosto 2018

Hodow, 1694: le Termopili polacche




Nel giugno del 1694 i tatari, in gran parte convertiti alla fede del Profeta Maometto, invasero il territorio del regno di Polonia. L'obiettivo, come tipico dei nomadi, era quello di saccheggiare villaggi e catturare persone come schiavi o da vendere in cambio di un ricco riscatto. Le forze polacche, da pochi anni reduci della sfolgorante vittoria di Vienna, si prepararono a respingere un avversario infinitamente più numeroso, nonché feroce. Ma invece di arroccarsi dietro le mura di una fortezza, i polacchi decisero di marciare direttamente contro il nemico, così da coprire la fuga delle masse di contadini disperati. Sette chorągwie di Ussari e Pacerni provenienti dalle fortezze di Okopy Świętej Trójcy e Szaniec Panny Marii cavalcarono alla volta dell'armata nemica. Gli ussari erano una potente cavalleria pesante, ma si contavano in appena cento, mentre i loro compagni Pacerni, in 300, erano una rapida cavalleria leggera non adatta certo a uno scontro frontale con i più rodati predoni della steppa.

Ma, com'era tradizione, un Ussaro non si ritirava se non da morto. Chiusi in una rocca nel vedere il popolo massacrato non avrebbero certo onorato le azioni di Vienna. Eppure i tartati erano in 40000, invece gli uomini del re soltanto 400.

Al primo incontro con il nemico, sulle pianure di Hodow, gli ussari fecero una cosa inimmaginabile: caricarono. Le lance dei guerrieri alati si fecero strada nell'avanguardia nemica, formata da 700 cavalieri, quindi si aprirono la strada a colpi di spada e pistola fino all'ononimo villaggio di Hodow. Mentre i pacerni fortificavano le strade con assi di legno e altre barricate, gli ussari tenevano a bada i guerrieri della steppa, che irati e sconvolti attaccavano a più riprese i polacchi senza riuscire a piegarne le difese. Tra i vicoletti la superiorità numerica contava ben poco e le ottime corazze degli ussari respingevano facimente le piogge di frecce che i tatari rovesciavano contro di loro. L'abilità con la szabla (la sciabola polacca) faceva il resto, tale da impantanare un'armata 100 volte più numerosa in un misero villaggio.

Non appena le difese furono terminate, i polacchi incanalarono l'attacco nemico tra le catapecchie zeppe di frecce. Facendo fuoco con le pistole e gli archibugi, gli ussari si trovarono presto senza proiettili, tanto da essere costretti a infilare nella canna le migliaia di frecce tatare e utilizzarle quali proiettili improvvisati. Se i musulmani riuscivano a superare indenni le precise raffiche polacche e le palizzate, si trovavano davanti dei colossi coperti da corazze a lamine apparentemente invulnerabili dalle leggere scimitarre portate dai nomadi. A centinaia caddero, si stimano circa 2000 morti, più innumerevoli feriti e moribondi.

Dopo sei ore di attacco senza sosta, il comandante dei tatari offrì la resa ai coraggiosi polacchi, di cui ne erano caduti meno di cento. Ovviamente la risposta degli Ussari fu semplice: l'inviato tornò dal comandante con una freccia tatari infilata nell'occhio (altre fonti dicono che non fu tale il comportamento dei polacchi, ma la risposta fu la medesima: nessuna resa).

A quel punto i tatari, certi dell'arrivo di un'armata di soccorso e terrorizzati da tale potenza (100 ussari riuscivano in tale impresa? Chissà cosa potevano i diecimila della corte del Re Giovanni III Sobieski!), si ritirarono dal villaggio, superando il confine e rinunciando infine all'intera invasione.

La vittoria, per la sua portata epica, riecheggiò per l'intera Europa. Il re stesso ricompensò ognuno degli eroi di Hodow con un cavallo delle stalle reali, trattamenti medici gratuiti e un ricco pagamento per ogni tataro catturato. Ma la vera ricompensa per questo pugno di valorosi fu l'immortalità: il merito di aver salvato la propria patria si unì alla memoria di un popolo. Infatti anche oggi svetta una statua sul luogo della battaglia, a memoria eterna di quegli uomini che combatterono in pochi contro un'intera orda.

Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?

Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.



https://bit.ly/2MkB1Zr

sabato 18 agosto 2018

1453: la caduta di Costantinopoli



Dopo la fine dell'impero romano d'Occidente, le mura fatte costruire dall'imperatore Teodosio nel V secolo erano riuscite a tenere al sicuro per mille anni la città di Costantinopoli, la solitaria sentinella posta alla soglia del mondo cristiano. Solo una volta la città era caduta nelle mani degli assalitori: per ironia della sorte proprio in quelle dei cristiani della quarta crociata.
Armate bulgare, rus, serbe e arabe si erano infrante contro le poderose fortificazioni, testimoni gloriose di un passato grandioso.

Ma la Morte Nera, un terremoto, le guerre civili e l'inarrestabile ascesa ottomana avevano trasformato la città degli imperatori porfirogeniti nell'ombra di sé stessa. I 50.000 abitanti speravano nell'intervento divino, in quello dell'Occidente e nelle vecchie ma poderose mura quando il giovane Maometto II mosse il suo enorme esercito (80.000-90.000 uomini) all'assalto della città, coadiuvato da una grande flotta di 126 navi e soprattutto con l'appoggio di 70 bocche da fuoco di vario calibro. Fra queste spiccava la terrificante creatura dell'ingegnere ungherese Orban, un mostro di bronzo lungo 9 metri in grado di sparare palle da mezza tonnellata l'una.
Nel disperato tentativo di salvare la città e gli ultimi brandelli del suo regno, l'imperatore Costantino XI Paleologo aveva provato a trattare col sultano, ma senza successo. Si era dunque rivolto agli occidentali, arrivando addirittura a riconoscere l'unione della Chiesa ortodossa con quella Cattolica per convincere i regnati d'Europa a giungere in suo soccorso.
Ma fra tutti solo il regno di Napoli, il papa, Genova e Venezia avevano risposto, preoccupati per la perdita dei loro grossi interessi nel commercio levantino. L'aiuto maggiore venne dai 700 genovesi comandati da Giovanni Giustiniani Longo, mentre Venezia tergiversò e la flotta che mandata in soccorso giunse a battaglia conclusa. Soldati, marinai, volontari armati, disertori ottomani e persino dei monaci facevano parte dei 7.000 difensori della città, troppo pochi per guarnire completamente le mura, lunghe ben 22 chilometri.

Dato che le 26 navi a disposizione non avrebbero potuto contrastare la flotta ottomana, Costantino XI fece tendere una catena attraverso il Corno d'Oro, per impedire l'accesso alle navi turche. Il 6 aprile 1453 cominciava l'assedio. I primi assalti turchi si conclusero in un nulla di fatto, a costo di gravi perdite per i coraggiosi soldati ottomani. L'artiglieria del sultano riuscì ad aprire diverse brecce nelle antiche mura, subito richiuse dai difensori con barricate improvvisate durante la notte. Gli ottomani tentarono allora di scavare delle mine sotto le mura, ma un ingegnere tedesco al seguito dei genovesi riuscì a distruggere tutti i tunnel, vanificando gli sforzi dei genieri serbi. Tre navi cariche di rinforzi e cibo erano riuscite a superare il blocco, facendo infuriare Maometto. 

Il sultano dunque ordinò che i suoi migliori fabbri e ingegneri si mettessero all'opera per trasportare le navi via terra fin dentro al Corno d'Oro. L'operazione, colossale dal punto di vista logistico, fu un successo e gli scorati difensori si trovarono ancora più stretti da entrambi i lati. Il cibo cominciava a scarseggiare, e i rinforzi promessi da Venezia non si vedevano. Ormai era chiaro che la città era condannata, ma l'imperatore si rifiutò di abbandonarla, come invece suggeriva la sua corte. Il 28 maggio, il giorno prima dell'attacco finale, si svolse una processione spontanea che culminò in una grandiosa funzione nella basilica di Santa Sofia. Latini e Bizantini erano di nuovo uniti nella stessa fede, per la prima e l'ultima volta. 

Nello stesso momento i soldati di Maometto pregavano e si preparavano all'attacco. All'una e mezza di notte del 29 maggio tutte le campane della città iniziarono a suonare: l'attacco finale era iniziato. Per oltre due ore i difensori respinsero decine di migliaia di male armati bashi-bazuk, sostituiti poi da orde di soldati anatolici, meglio armati e addestrati. Dopo lunghe ore di combattimenti senza sosta i difensori non potevano sperare di resistere all'assalto dell'élite del sultano, i temibili giannizzeri. La vista del comandante Giustiniani Longo che, ferito, veniva portato via dai suoi uomini e la bandiera con la mezzaluna che veniva issata sopra la kerkoporta mandarono nel panico gli ultimi difensori, che lasciarono i loro posti. Riconoscendo che la fine della sua vita e del suo impero erano giunti, Costantino XI si liberò delle insegne imperiali e si gettò nella mischia per morire alla testa degli ultimi irriducibili difensori.

Per punire il rifiuto dell'offerta di resa, Maometto permise tre giorni di saccheggi ai suoi uomini. Costantinopoli, la seconda Roma, morì tra le fiamme insieme a gran parte dei suoi tesori, della sua cultura, della sua bellezza. Dalle ceneri sorse Istanbul, la capitale dell'impero che per i secoli successivi avrebbe fatto tremare l'Occidente cristiano.



Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?

Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.


https://bit.ly/2MkB1Zr

venerdì 17 agosto 2018

"Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi!": la crociata contro i Catari


Sul finire dell'XI secolo, in varie zone d'Europa ma in particolare nella Linguadoca (Francia meridionale) era andato diffondendosi un movimento religioso che proponeva una rilettura delle Sacre Scritture e uno stile di vita ascetico. I catari, (in greco "puri"), conosciuti anche come albigesi dalla città di Albi o boni homini, affermavano che l'universo fosse diviso fra due elementi opposti, il Bene (Dio) e il Male (Satana). 

A quest'ultima categoria apparteneva tutto ciò che era materiale, tanto che i catari abbracciavano uno stile di vita ascetico. Questo movimento ebbe un grande successo nella Francia meridionale, nonostante la condanna voluta da papa Alessandro III al Concilio di Tours nel 1163. A livello politico il catarismo era temuto in quanto metteva in discussione l'autorità del re di Francia e della Chiesa, infatti nel 1167 si era tenuto un "controconcilio" cataro. All'inizio la Chiesa tentò la carta della predicazione, ma persino dei pesi massimi come Bernardo di Chiaravalle e Domenico di Guzmàn non riuscirono a riportare i catari sulla retta via.

La situazione esplose quando il 15 gennaio 1208 il legato papale Pierre de Castelnau venne assassinato, per mano del conte di Tolosa Raimondo VI secondo il papa Innocenzo III. A questo punto il pontefice fece una cosa senza precedenti: bandì una crociata contro altri cristiani, alla cui aderirono moltissimi nobili della Francia settentrionale ma anche avventurieri di ogni risma. Le operazioni vennero affidate al cavaliere Simon de Montfort e all'abata Arnaud Amaury. La leggenda vuole che fu proprio questo ecclesiastico a pronunciare la famosa frase "Uccideteli tutti. Dio riconoscerà i suoi" quando i suoi soldati chiesero cosa fare con gli abitanti di Bezièrs, la prima roccaforte catara caduta in mano all'armata crociata il 22 luglio 1209. 

Ventimila "eretici" vennero seviziati e massacrati, le donne stuprate, gli uomini macellati senza pietà. Quella che si rivelò una campagna di conquista continuò inarrestabile negli anni seguenti: caddero Carcassone, Albi, Monfort e Lavaur. Sebbene non ci fossero più massacri paragonabili a quello di Béziers, ovunque roghi, torture e violenze verso la popolazione erano all'ordine del giorno. L'intervento di Pietro II, re di Aragona, non valse a cambiare le sorti della guerra: il sovrano iberico moriva appena un anno dopo, nel 1213, lasciando il conte Raimondo di nuovo da solo. Nel corso dell'assedio della capitale Tolosa (nell'immagine) Simon de Montfort venne ucciso da una pietra, il ché permise al nuovo sovrano Luigi VIII di impossessarsi delle terre conquistate dai crociati. I catari riuscirono a riorganizzarsi e riconquistare alcuni centri, ma dopo l'ennesima campagna di distruzioni e massacri il nuovo conte Raimondo VII dovette siglare lo svantaggioso trattato di Meaux, col quale rinunciava a sostenere i boni homini e cedeva gran parte delle sue terre alla Corona francese. 

Con la Linguadoca saldamente in mano francese, schiere di inquisitori poterono imperversare nella Francia meridionale, mentre negli anni successivi cadevano anche gli ultimi rifugi dei catari e la contea di Tolosa veniva infine annessa alla Francia nel 1271. La parabola dei catari terminò nel 1321 con il rogo di Guilhèm Belibaste, l'ultimo càtaro ad essere arso vivo per la sua fede. Dopo un secolo di lotte ove la spada più che la croce era stata la protagonista, gli albigesi erano un ricordo e il Sud della Francia era nelle mani di Parigi.

Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?

Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.


https://bit.ly/2MkB1Zr

giovedì 16 agosto 2018

Leuttra: la fine dell'invincibilità spartana (6 luglio 371 a.C.)



Dopo la guerra del Peloponneso che aveva visto la sconfitta di Atene e delle sue ambizioni di egemonia su tutta la Grecia, Sparta si era imposta come la dominatrice dell'Ellade, forte della sua supposta invincibilità sui campi di battaglia. La tattica della falange oplitica aveva per secoli continuato a dimostrare la sua validità, anche se episodi come la battaglia di Sfacteria avevano dimostrato come le truppe leggere potessero dare un contributo altrettanto decisivo.
Avendo sconfitto i rivali ateniesi, gli spartani utilizzarono il loro strapotere per imporre in varie città della Grecia governi oligarchici, Tebe compresa. Nel 379 Pelopida e altri leader del movimento democratico tornarono dall'esilio ad Atene, riuscendo a far sollevare la popolazione contro gli oligarchici e i loro alleati spartani.
Da questo episodio scoppiò la cosiddetta guerra Beotica, che si concluse con lo scontro di Leuttra. All'alba del 6 luglio del 371 i prognostici non erano favorevoli ai discendenti di Cadmo: 9.000 fra tebani e alleati avrebbero dovuto affrontare un'armata non solo superiore di numero (circa 14.000), ma anche contenente i leggendari e invincibili opliti spartani.

Probabilmente ispirato dai fatti della battaglia di Delo, nella quale i tebani avevano schierato una falange profonda il doppio del consueto (8-12 file di uomini era la profondità classica), Epaminonda scelse di schierare i suoi uomini in maniera poco ortodossa: invece di schierare i suoi uomini migliori sul fianco destro, il più vulnerabile, fece avanzare il Battaglione Sacro e i suoi migliori opliti sul fianco sinistro, direttamente davanti all'elitè spartana guidata da re Cleombroto. Il contingente tebano, profondo ben 50 linee, avanzò più velocemente del resto della linea tebana, andando a disegnare un fronte obliquo. La superiorità di forze applicate in un punto nevralgico fu decisiva e infatti il re spartano e moltissimi dei suoi uomini migliori caddero prima che il resto della formazione spartana riuscisse a manovrare per venire in loro soccorso.
Con la caduta del generale peloponnesiaco e i leggendari spartiati morti o in fuga, gli alleati degli spartani si diedero alla fuga, lasciando sul campo il mito dell'invincibilità degli spartani.

La disfatta ebbe importanti conseguenze politiche, la prima fra tutte il declino dell'egemonia spartana e l'ascesa della breve egemonia tebana. La tattica dello schieramento obliquo, noto anche come formazione echelon, rimarrà decisiva e importantissima nei secoli a venire fino ai giorni nostri, un tributo al genio tattico di Epaminonda.


Art by Giuseppe Rava



Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?

Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.


https://bit.ly/2MkB1Zr

martedì 7 agosto 2018

Il Re Pacificatore: Le Loi (1385-1433)



All'alba dell'anno 1400 la dinastia Ho aveva rimpiazzato la dinastia Tran e si apprestava a riformare il Dai Viet (Vietnam), ma un pretendente della vecchia dinastia convinse l'imperatore Yongle a far intervenire gli eserciti della Cina Ming per supportare la sua pretesa al trono. L'esercito cinese conquistò il paese, che passò sotto l'amministrazione diretta dei Ming, tolti di mezzo i Tran, come già era avvenuto 500 anni prima sotto la dinastia Tang. Il governo cinese trovò un limitato supporto, in quanto in molti accusarono gli occupanti di compiere ruberie di artefatti, preziosi e tesori a danno dei viet. Anche se le rivolte che scoppiarono per supportare gli ultimi Tran fallirono, aiutarono a spargere il sentimento di rivalsa che sarebbe stato decisivo pochi anni dopo. Le Loi era un nobile feudatario di Lam Son nato probabilmente nel 1385 che appoggiò le rivolte dei Tran, ma anche dopo la loro sconfitta non smise di sognare l'indipendenza del paese. Per questo nel 1418 venne denunciato come ribelle e fu costretto a a rifugiarsi sulle montagne, dove iniziò la sua ribellione. Nella sua provincia natale di Thanh Hóa la ribellione poté crescere grazie al supporto delle importanti famiglie dei Trinh e dei Nguyen, oltre che del popolo ansioso di scacciare i Ming. All'inizio venne scelto un discendente dei Tran come simbolo della rivolta, ma nel giro di breve Le Loi venne scelto quale nuovo capo, chiamato dai suoi il Re Pacificatore. All'inizio le forze vietnamite dovettero limitarsi a condurre azioni di guerriglia contro gli occupanti, non avendo ancor abbastanza forze per sfidarli in battaglia. Braccati e costretti spesso a nutrirsi dei loro animali, i guerriglieri furono quasi annientati più di una volta. In un'occasione, trovandosi circondati in cima a una montagna, il fedele amico del leader ribelle, Le Lai, indossò l'armatura di Le Loi e guidò una carica suicida contro i Ming per dare agli altri il tempo di fuggire grazie al suo eroico sacrificio. Nel 1421 il re Lan Kham Deng del regno di Lan Xang inviò delle truppe a supporto dei guerriglieri vietnamiti, ma i cinesi diedero fondo ai loro forzieri per comprare la lealtà dei laotiani. Costretto a combattere contro due nemici contemporaneamente, la situazione era così disperata che Le Loi accettò un'offerta di tregua e si ritirò sulle montagne. Ma con la morte dell'imperatore Yongle i cinesi si disinteressarono del Vietnam a causa delle spese eccessive che l'occupazione comportava. Con un esercito rafforzato rispetto alla prima fase, i ribelli poterono tendere una serie di imboscate agli occupanti, per poi batterli in campo aperto e costringerli a rifugiarsi nelle fortezze del nord. All'inizio del 1426 la ribellione si era talmente estesa che Le Loi poté assediare Dong Kinh (Hanoi) e sconfiggere un'armata di 50.000 uomini mandata in soccorso della città. Per offrire ai Ming un'uscita dignitosa dal conflitto, Le Loi proclamò imperatore il principe Tran Cao, dato che i cinesi erano intervenuti con il pretesto di rendere il trono ai Tran. Ma a causa dell'intransigenza dei viet lealisti, il conflitto continuò e i cinesi si rinchiusero nelle fortezze rimaste mentre i ribelli controllavano ormai l'intero paese. Quando nell'ottobre del 1427 i rinforzi cinesi furono annientati in un'imboscata presso il passo di Chi Lang, al governatore Ming non rimase altra scelta che arrendersi. Nell'aprile del 1428, dopo dieci anni di lotta, Le Loi divenne imperatore del Dai Viet, un paese formalmente tributario dei Ming ma indipendente. I cinesi lasciarono i loro vassalli a sé stessi e autonomi per i secoli successivi, e Le Loi, il primo imperatore della dinastia Le, venne glorificato come il perfetto esempio del regnante saggio, capace e giusto.
Secondo le leggende, Le Loi giunse alla vittoria anche grazie alla spada magica "Volontà del Cielo", donatagli dal semidio Long Vuo'ng, il Re Drago. Un anno dopo esser asceso al trono, mentre era in barca sul lago Ho Luc Thuy, la tartaruga dal guscio dorato Kim Qui emerse dalle acque e con voce umana gli chiese di rendere la spada al Re Drago, in quanto ormai il Dai Viet era libero. Il re lanciò la spada al rettile che la afferrò con la bocca e la riportò al suo signore, che vive in quello che ancora oggi è chiamato Ho Hoan Kiem, il Lago della Spada Riportata.

Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?
Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.