Ficca il naso

martedì 18 settembre 2018

Astuti e mortali: la setta degli Assassini



Pochi anni prima della Prima Crociata, nel 1090, il carismatico ed erudito Hassan-i Sabbah conquista il forte di Alamut, in Iran. Ci sono molte storie diverse su come il "vecchio della montagna" (da un'errore di traduzione del termine arabo shaykh, che significa sia capo che vecchio) abbia conquistato la fortezza usando il suo ingegno e senza spargere una goccia di sangue, ma ciò che importa è che per i successivi duecento anni il castello sarà la base operativa della sua setta. Sabbah decide di fondare il suo ordine quando l'erede dell'Impero fatimide, che egli sosteneva, venne ucciso. A questo punto si scatenò una guerra fratricida fra tra i due figli Nizār e al-Mustaʿlī per la successione, e i seguaci di Sabbah si allontanarono dagli altri seguaci della corrente Ismailita, derivante dall'Islam sciita, in quanto sostenevano Nizār, da cui prenderanno il nome di Nizariti.

Caratterizzati dall'assoluta obbedienza ai loro capi carismatici che hanno un rango semi-divino, i seguaci della setta vengono indottrinati e addestrati rigorosamente per compiere le audaci missioni che li renderanno famigerati in tutto il mondo. I ranghi più bassi della rigida scala gerarchica della setta era occupata da coloro che però erano addestrati con più cura, i cosiddetti Fida'in. Costoro erano giovani forti, agili e robusti, ma anche intelligenti, astuti e carismatici. Infatti la tattica degli Assassini prevedeva un accurato lavoro di pianificazione che poteva durare anche anni, durante i quali l'agente si infiltrava usando le sue abilità fino ad arrivare il più vicino possibile al bersaglio. Questo iter terminava con l'eliminazione della vittima, preferibilmente uccisa in un luogo pubblico per rendere il più spettacolare e intimidatorio possibile l'omicidio. Il fatto che in questo modo gli agenti accettassero serenamente di essere trucidati dalle vendicative guardie ha dato adito alla leggenda secondo la quale i seguaci del Vecchio della Montagna abusassero di hashish, somministrato loro dal maestro per indottrinarli. Da qui deriverebbe anche il loro nome Hashashini, dall'arabo al-Hashīshiyyūn, "coloro che si dedicano all'Hashish".

Ma questa teoria è poco credibile in quanto l'uso della droga allenta i sensi, rende difficile la concentrazione e compromette dunque la capacità di compiere le audaci ed elaborate imprese di questi agenti. Più probabilmente il loro nome deriva dal loro maestro e significherebbe dunque "seguaci di Hassan". Anche la leggenda secondo la quale gli adepti erano portati in un lussureggiante giardino che veniva presentato loro come il paradiso, al quale potevano avere accesso solo grazie al loro maestro (una storia riportata anche da Marco Polo), è stata confutata e non è più ritenuta credibile.
Ma nonostante la loro abilità e il loro valore, nel 1256 il condottiero mongolo Hulagu Khan catturò la rocca di Alamut e le altre fortezze con cui gli assassini controllavano la regione, sterminandone gli occupanti per vendicare il tentato assassinio di Möngke Khan. I superstiti della disfatta setta si recarono in Egitto dove offrirono i loro servigi ai Mamelucchi e anche in Ungheria, dove sopravvissero fino a quando la loro comunità non venne estirpata dall'Inquisizione.


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lunedì 17 settembre 2018

I misteriosi figli del totem: i Piceni



Da sempre contraddistinti per la loro spiritualità occulta, fin dalla loro nascita leggendaria i piceni sono presentati come un popolo intrinsecamente legato alle potenze divine: i piceni non erano altro che sabini, genti che popolavano Lazio e Campania, riunitisi per quel mitico, a metà tra sacro e profano, ver sacrum. Questo viaggio, a cui partecipavano grandi masse di persone (quasi sempre giovani), si snodava per l'intera penisola centrale, alle ricerca del luogo idoneo per fondare un nuovo dominio.
Quando sul vessillo del capo guerriero si pose un picchio, all'altezza dell'attuale città di Ascoli, i futuri piceni compresero che gli dei avevano deciso che quello sarebbe stato il luogo in cui loro avrebbero dovuto stabilirsi.

Da un punto di vista storiografico si ritiene che i Piceni facciano parte del grande calderone degli Osco-Umbri, giunti in Italia nel II millennio avanti cristo. Le popolazioni osco umbre popolarono l'Italia dalla Calabria (dove vivevano i temuti Bruzi) fino appunto alla Picenia. Si ipotizza che i Piceni partirono da Tiora Matiena, luogo in cui vi era un oracolo dove un picchio profetava ai mortali, per poi risalire la Valle del Tronto, ponendo Ascoli quale loro capitale e Cupra come santuario. Un'altra teoria invece si lega agli Illiri, i quali potrebbero essersi mescolati o avere influenzato le popolazioni Osco Umbre della costa, sebbene non conosciamo iconografiche legate al Picchio in uso nella zona balcanica. Sembra infine farsi strada anche la teoria di un popolo autoctono, entrato in contatto successivamente con gli osco umbri.

Ma se queste sono domande a cui è difficile dare una risposta, ciò che vediamo di certo è che i Piceni avevano una propria lingua, erano estremamente avanzati (come dimostrano i tantissimi reperti archeologici), ma soprattutto avevano un legame con il sacro unico tra le popolazioni italiche. Per i Piceni sembra non esistesse una separazione tra ciò che era divino e ciò che fosse profano. Solo negli ultimi anni della loro storia iniziano a esservi influenze estranee che li portano ad avvicinarsi alla sacralità pragmatica romano etrusca.

Una figura femminile, affiancata a quella del picchio, è il fulcro della religiosità picentina. La dea Cupra, di cui il santuario è l'unico a essere stato ritrovato oltre ad alcuni depositi votivi e al tempio successivo di Diomede, sembra essere il centro di un culto di origini antichissime, forse legato alla dea pre indoeuropea matriarcale conosciuta quale Potnia. Altro essere divino era il signore degli animali, un'entità selvaggia ritratta in numerose offerte di bronzo e nei corredi tombali dei guerrieri. Il livello artistico dei piceni è stupefacente: opere d'arte quali il guerriero di Capestrano e i guerrieri del totem del lupo denotano non solo uno sviluppo tecnologico non indifferente, ma anche la ricchezza del popolo, che oltre alla pastorizia si dedicava al commercio sull'adriatico. Gli etruschi e gli umbri erano anch'essi importanti partner commericali.
Totem animali, quale lupo e picchio, sono altre caratteristiche peculiari dei Piceni, di cui resti artistici ci descrivono danze sacre, antichi rituali profetici, processioni misteriose verso località perdute tra i monti.
Si ipotizza che le sacerdotesse e i sacerdoti avessero un ruolo quasi predominante nella società picena: la lettura del futuro e l'interessere di sortilegi avevano la medesima importanza delle decisioni di un capo militare.
Probabile quindi che le donne picene (in particolare le sacerdotesse) fossero figure rispettate, depositarie di un'antica sapienza che gli uomini non potevano comprendere.

I Piceni popolarono il territorio che andava dal fiume Foglia all'Aterno dal IX al III secolo a.c. Pressati dai Galli a nord, i Piceni si allearono ai romani.
Nel 290 a.c., dopo la vittoria di Sentino sui Sanniti, la potenza romana lambì i confini del territorio dei Piceni, i quali aiutarono i guerrieri dell'Urbe a sconfiggere i Galli Senoni. Appare così un indizio della potenza militare Picena: non erano stati travolti dai celti, avevano resistito alle incursioni etrusche, addirittura permettevano ai romani di vincere i temibili guerrieri nordici. Eppure ormai il loro destino era segnato: i domini romani li circondavano completamente e, sentendosi minacciati, i piceni reagirono.
Fu un guerra lunga (ne parleremo approfonditamente in un articolo) che si concluse infine con la vittoria romana, così importante da portare al conio di una moneta d'argento celebrativa. Iniziò da quel momento una storia sanguinosa di rivolte, alleanze e tradimenti. Molti piceni vennero deportati nelle zone di Salerno, gli altri vennero lentamente romanizzati.
Guerrieri piceni combatterono a fianco dei romani sul lago Trasimeno, subirono il saccheggio da parte di Annibale ma rimasero fedeli a Roma, videro i propri figli più giovani morire a Canne. Con la guerra sociale del II secolo a.c., i piceni sconfissero, insieme ai loro alleati, i romani presso Falerone (90 a.c.), ma vennero poi sconfitti (per un soffio) mentre cingevano d'assedio la città di Fermo. Il condottiero dei Piceni, Vidacilio, tentò di proteggere alllora la capitale Ascoli dalle forze romane, ma, nonostante avesse messo in fuga i legionari, trovò il popolo ormai incerto e lontano dalle tradizioni che un tempo animavano il popolo picentino. Amareggiato, compì l'estremo di atto di suicidarsi.

Ascoli Piceno infine cadde e la sua caduta segnò la scomparsa del culto della dea Cupra, già in decadenza.
I Piceni divennero parte della tribù Fabia e il loro territorio fu ripartito tra la regio V e la regio VI, riunificato infine con Diocleziano nel Flaminia et Picenum. Giove vinceva così la meno guerresca dea Cupra, di cui tra i nuovi cittadini romani se ne perse il ricordo. Eppure, per coloro che ancora adesso ascendono fino agli impervi santuari del popolo del Picchio, le antiche pietre sembrano ancora riecheggiare dei rituali millenari e, forse, voci femminili sussurrano tuttora i segreti di una terra magica.

Fonti
I Piceni, storia e archeologia delle Marche in epoca preromana, di A. Naso.
La civilità della Dea, Marika Gimbutas.
Storia della Prima Italia, Massimo Pallottino.
Preistoria e Storia delle Regioni D'Italia, Gianna G. Buti

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sabato 15 settembre 2018

Samurai! Saburo Sakai, leggendario asso nipponico (1916-2000)



La famiglia nella quale Saburo nacque nel 1916 era appartenuta un tempo alla casta militare dei samurai, ma era stata poi costretta a darsi all'agricoltura in seguito all'haihan-chiken. Rimasto orfano a 11 anni e ottenuti scarsi successi negli studi, a 16 anni si arruolò nella Marina imperiale giapponese, un ambiente dove vigeva una disciplina durissima e in cui le reclute venivano violentemente percosse per ogni minima effrazione o errore. Grazie alla sua educazione che era stata incentrata sul rispetto delle norme del Bushido e dell'Hagakure, Saburo riuscì non solo a superare il massacrante addestramento, ma si guadagnò il grado di sergente di marina prima di fare richiesta per entrare in una scuola per piloti. Come premio per la sua abilità che lo aveva reso il miglior allievo del corso, ricevette un orologio d'argento dall'Imperatore in persona, prima di venire trasferito in suolo cinese, dove c'è un disperato bisogno di piloti. Qui, pilotando un Mitsubishi A5M abbatte la sua prima preda, un Polikarpov I-16. Quando il suo aeroporto venne bombardato da 12 veicoli cinesi, il già ferito Sakai balzò sul primo aereo ancora utile, inseguì gli assalitori e ne abbatté uno prima di tornare indietro per la mancanza di carburante e tentare un atterraggio di emergenza a causa delle ferite.

Trasferito nella base di Hankow, venne selezionato per pilotare il leggendario Mitsubishi A6M "Zero", con il quale prende parte, il 7 dicembre 1941, all'attacco su Clark, base statunitense nelle Filippine che viene rasa al suolo. Nel corso di quella che all'epoca fu un'incursione da record per la distanza percorsa, Saburo abbatté un bombardiere B-17, primo abbattimento da parte di forze giapponesi di questo tipo di aeroplano. Trasferito in Borneo, mise in evidenza due delle sue caratteristiche più tipiche: la grandissima abilità e l'atteggiamento ribelle. Nei cieli sopra Surabaya infatti 23 Zero affrontarono una cinquantina di caccia olandesi, abbattendo una quarantina di nemici in cambio di tre sole perdite (anche se i numeri sono incerti).
La sua attitudine critica verso gli arroganti ufficiali superiori e la tipica mentalità giapponese lo portarono a disobbedire all'ordine di abbattere qualsiasi veicolo nemico, quando risparmiò un Douglas DC-3 carico di civili, e a compiere gesti provocatori come lo spettacolo acrobatico che Sakai e gli assi Hiroyoshi Nishizawa e Oshio Ota (con i quali formava il famoso "Cleanup Trio") offrirono ai piloti alleati di Port Moresby.

Trasferito nella base di Lae, in Nuova Guinea, si guadagnò il rispetto degli equipaggi di terra e d'aria (perse pochissimi gregari durante la guerra) con la sua abilità ma anche con il suo carattere così diverso da quello degli arroganti e violenti ufficiali cui erano abituate le truppe. Ma durante i ferocissimi scontri sopra Guadalcanal, l'8 agosto, Sakai venne colpito in testa da un colpo di mitragliatrice. Il proiettile passò attraverso il cranio del pilota, accecandolo da un occhio e paralizzando il lato sinistro del suo corpo. In queste condizioni terrificanti riuscì a percorrere in 4 ore e mezza i 1.000 km che lo separavano dalla base di Rabaul, dove rifiutò qualsiasi cura medica prima di aver fatto rapporto. Un'operazione senza anestesia gli permise di usare di nuovo la parte sinistra del corpo ma nulla poté essere fatto per salvare il suo occhio destro. Dopo 6 mesi di riabilitazione, il pilota ormai orbo trascorse un anno ad addestrare nuovi piloti, vedendosi rifiutato il permesso di tornare a combattere fino all'aprile del 1944.

Tornato nella mischia, Sakai ingaggiò gli statunitensi in una serie di scontri sopra Iwo Jima, dimostrando la sua esperienza e abilità quando riuscì a sfuggire a quattro moderni Hellcats senza venire mai colpito una sola volta. La sua indole ribelle emerse ancora una volta, quando si rifiutò di portare a morte certa i suoi uomini, a cui era stato ordinato di portare a compimento un attacco kamikaze, portandoli invece in salvo a Iwo Jima. Nonostante la sua grave menomazione, riuscì ad abbattere altri 4 veicoli nemici, portando le sue vittorie alla cifra di 64, che gli valsero la promozione ad ufficiale, un onore concesso molto raramente nell'esercito imperiale. L'alfiere Saburo Sakai venne scelto insieme ad altri per pilotare una forza equipaggiata con i moderni e ottimi Kawanishi N1K Shinden, ma ormai era troppo tardi. Dopo il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, lui e altri nove compagni contravvennero agli ordini per combattere un ultimo scontro, per poi dover accettare anch'essi la sconfitta del Giappone.

Promosso a sotto-tenente, dopo la guerra divenne un buddista devoto, vegetariano e pacifista, tanto che giurò di non uccidere mai più un essere vivente, nemmeno una mosca.
La sua vita post-bellica inizialmente venne segnata dalla povertà e dal dolore per la morte prematura della moglie, ma nel 1952 aprì una piccola tipografia e inviò la figlia a studiare in America. Criticò aspramente il governo giapponese e le scelte ottuse e arroganti che avevano provocato la morte di centinaia di migliaia di persone, oltre a denunciare come i suoi superiori lo discriminassero e maltrattassero, nonostante le sue imprese eroiche. In seguitò visitò gli Stati Uniti dove incontrò molti dei suoi antichi avversari, con i quali intrattenne rapporti improntati al rispetto e alla stima reciproca. Il pilota che si era distinto non solo per abilità, resilienza e amore per la propria patria, ma anche per galanteria e rispetto per la vita umana morì il 22 settembre 2000 durante un incontro fra veterani nella base navale di Atsugi, a causa di un attacco cardiaco.


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Sangue nei Balcani: la battaglia di Durazzo, 18 ottobre 1081



Dopo aver conquistato la Sicilia araba e il sud Italia bizantino, Roberto il Guiscardo non prese bene la deposizione dell'imperatore Michele VII Dukas. Infatti Costantino, il figlio del monarca, aveva preso in sposa la figlia del duca di Apulia e Calabria, Elena, che ora vedeva svanire la sua possibilità di sedere sul trono di Costantinopoli come imperatrice. Col pretesto di supportare le pretese di Costantino contro l'usurpatore Alessio I Comneno, Roberto trasportò con 150 navi i suoi 15.000 uomini in Illiria, con l'obbiettivo di catturarne la capitale Durazzo. Ma la città era ben difesa e non temeva l'assedio, tanto più che il doge Domenico Selvo accettò la richiesta di aiuto in cambio di concessioni commerciali offerte da Alessio. Gli esperti marinai veneziani sorpresero la flotta di Roberto e le inflissero una sonora sconfitta a colpi di fuoco greco e abbordaggi. Nonostante ciò il Guiscardo non si scoraggiò e cominciò l'assedio della città, difesa dall'esperto Giorgio Paleologo. Per tutta l'estate i normanni bombardarono la città con baliste e catapulte, mentre i difensori compivano improvvise sortite per distruggere le macchine e le scorte degli assalitori. Oltre alla distruzione delle loro macchine (prima fra tutte la preziosa torre d'assedio), i normanni dovettero subire un'epidemia che decimò i loro ranghi.

Ma l'imperatore Alessio non era lontano: ben presto il suo variegato esercito composto da tagmata traci e macedoni, unità d'élite excubita e vestiaritae, manichei, cavalleria tessala, coscritti dei Balcani, fanteria armena, ausiliari turchi, mercenari franchi e la temibile guardia Variaga. Quest'ultimo corpo d'élite all'epoca era formata principalmente da anglo-sassoni, scacciati dalle isole britanniche dopo la conquista normanna. A questi nerboruti giganti ascia-muniti si presentava finalmente l'occasione di regolare i conti con gli intraprendenti uomini del nord. Alessio, contro al parere dei suoi generali, volle immediatamente attaccare Roberto, che informato dei suoi movimenti, abbandonò l'assedio e si preparò allo scontro campale. Entrambi i comandanti divisero il proprio esercito in tre divisioni, avanzando cautamente contro il nemico. I variaghi costituivano l'avanguardia bizantina, un muro di asce e scudi dietro cui si riparavano gli arcieri che scoccavano e tornavano a ripararsi dietro i mercenari nordici. Roberto lanciò dei cavalieri per provocare i variaghi e distoglierli dalle loro posizioni, ma i normanni furono fermati dalla pioggia di frecce che li ricacciò indietro. D'improvviso la destra normanna guidata da Amico di Giovinazzo si lanciò contro il centro e il lato sinistro bizantino, che però resse all'urto, e addirittura mise in rotta gli attaccanti. Dimentichi del pericolo cui si sarebbero esposti, i variaghi allora partirono all'inseguimento degli sconfitti che fuggivano verso il mare.

A questo punto comparve Sichelgaita, sposa longobarda del Guiscardo, che indossate armi e armature rianimò gli inseguiti con la sua determinazione e il suo coraggio che la rendevano "una seconda Atena". I variaghi che avevano messo in fuga i cavalieri normanni con le loro grandi asce a due mani erano ora esausti e separati dal resto dell'esercito, facile prede per i balestrieri e i lancieri di Roberto. I sassoni superstiti allora cercarono rifugio nella vicina chiesa dell'Arcangelo Michele, forse sperando nella protezione dell'Onnipotente, che però non poté impedire ai normanni di dare l'edificio alle fiamme, fra le quali perirono orribilmente tutti i variaghi. Nemmeno una sortita del coraggioso Giorgio Paleologo poté ribaltare le sorti della giornata, che fu decisa quando i cavalieri normanni caricarono il centro bizantino usando il nuovo modo di caricare, con la lancia in resta per infliggere il massimo danno al nemico. Vedendo l'ago della bilancia pendere dalla parte dei normanni, gli alleati serbi e turchi di Alessio si persero d'animo e decisero di abbandonare la lotta, lasciando l'imperatore al suo destino. Alessio stesso rischiò di essere ucciso più volte e venne salvato dalla mano di Dio secondo i cronisti, dalla sua ottima armatura secondo i pragmatici.

Anche se il Guiscardo fu richiamato in Italia dalle rivolte scoppiate in sua assenza e dalle richieste di aiuto del papa, i bizantini dovettero subire altre due sconfitte ad Arta e Giannina prima di poter espellere gli invasori nel 1083 e riconquistare così a caro prezzo i Balcani. I veri vincitori furono probabilmente i veneziani, che si guadagnarono la stima dell'imperatore, oltre che una colonia commerciale a Costantinopoli e diverse esenzioni fiscali.

Art by Giuseppe Rava

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Da eroe delle SS ad assassino per il Mossad: Otto Skorzeny e l'Operazione Damocle



Negli anni Sessanta il presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser stava sviluppando un programma missilistico per minacciare direttamente Israele. Non potendo fare affidamento sui sovietici o sugli americani per accedere a tale tecnologica, si era rivolto all'Europa, assoldando un buon numero di scienziati tedeschi che in passato avevano sviluppato armi per il regime nazista di Hitler. Secondo le loro fonti, gli israeliani scoprirono che nella misteriosa "fabbrica 333", gli egiziani stavano costruendo oltre 900 razzi, oltre a stare sviluppando sostanze chimiche, biologiche e le testate a combustione di gas per queste armi. Per scoraggiare gli scienziati tedeschi il Mossad era ricorso a minacce telefoniche e l'invio di alcune lettere bomba, ma con scarso successo. Non potendo permettere che una tale minaccia si concretizzasse, Israele diede via all'Operazione Damocle, un'azione su larga scala che prevedeva il ricorso a qualsiasi mezzo pur di salvaguardare la sicurezza dello stato ebraico. Anche fare un patto col diavolo.

Otto Skorzeny, il viso sfigurato dall'iconica cicatrice, era stato una delle SS preferite di Hitler, considerato "l'uomo più temuto d'Europa" che aveva liberato Mussolini dal Gran Sasso e aveva portato a termine altri audaci missioni come commando e infiltrato. Processato per crimini di guerra, era stato assolto anche grazie alla testimonianza a suo favore di un ufficiale inglese, che aveva dimostrato quanto anche il nemico lo rispettasse. Dopo la liberazione aveva visitato vari paesi, fino a stabilirsi in Spagna. Proprio in un bar altolocato di Madrid, nel 1962, lui e sua moglie furono avvicinati da una sofisticata coppia tedesca che, a loro dire, era stata rapinata e aveva perso i documenti. I quattro iniziarono a bere e chiacchierare amabilmente, fino a quando l'ex SS invitò i due a casa sua. Ma nel suo salotto, senza alcun preavviso, Skorzeny puntò una pistola contro gli ospiti.
«Ho capito chi siete, agenti del Mossad, e volete uccidermi!». In tutta calma i due rivelarono le loro identità ma affermarono che «...se avessimo voluto ucciderti saresti già morto. Vogliamo farti un'offerta».

C'era una sola cosa che l'austriaco desiderava e che il Mossad poteva dargli: l'essere cancellato dalla lista nera di Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti. Fu questo il premio che gli venne promesso se avesse aiutato i suoi antichi nemici a sabotare i piani degli egiziani. Giunto in Israele ricevette istruzioni da Isser Harel, la mente che aveva organizzato il rapimento del nazista Adolf Eichmann, e si recò in Egitto, dove acquisì molte informazioni sugli scienziati al soldo di Nasser grazie alle sue connessioni. In un caso, fu lui stesso a inviare il pacco bomba alla fabbrica di Heliopolis che uccise cinque operai egiziani che lavoravano per gli ex-nazisti. Ma il suo contributo più grande alla sicurezza di Israele non lo diede in Medio Oriente o in Africa, ma a Monaco. Nella città bavarese risiedeva Heinz Krug, ex-scienziato che aveva contribuito alla costruzione dei missili V-1 e V-2 e capo di una società di che forniva attrezzature militari all'Egitto.

Ormai era chiaro che il Mossad era sulle traccie di chi collaborava con Nasser, e il 49enne aveva già ricevuto diverse telefonate nel cuore della notte che lo minacciavano di morte nel caso in cui non avesse smesso di collaborare con gli egiziani. Temendo per la propria vita, Krug si era rivolto a un vero eroe del Reich, il tenente colonnello Otto Skorzeny, da poco entrato in contatto con lui. Quando salì in macchina con la sua nuova bodyguard, gli venne spiegato che i tre uomini nella macchina dietro di loro erano guardie del corpo fidate, mentre in realtà erano agenti del Mossad, fra i quali vi era anche il futuro premier Yitzhak Shamir. I due ex-nazisti si recarono in un bosco, dove avrebbero dovuto discutere sul da farsi, ma invece Skorzeny estrasse la pistola e freddò l'allibito Krug.

L'Operazione Damocle attirò molte critiche su Israele e dovette essere sospesa per non incrinare i rapporti con la Germania, ma funzionò: molti scienziati tedeschi lasciarono il paese e Nasser dovette rivolgersi ai sovietici per continuare la sua corsa agli armamenti. Ma nonostante il grande contributo dato, Simon Wiesenthal si rifiutò categoricamente di rimuovere dalla sua lista l'ex-SS. Alla fine il Mossad fabbricò una finta lettera del cacciatore di nazisti in cui dichiarava che Skorzeny non era più un nemico di Israele. Nonostante questo, forse il Mossad sarebbe tornato per la sua testa, se l'austriaco non fosse morto di cancro nel 1975 a Madrid, ma almeno poté trascorrere gli ultimi anni in relativa tranquillità.

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Un vecchio conto in sospeso: Marignano, 1515


Del fiero ducato di Milano era rimasta una pallida ombra.
Massimiliano Sforza veniva sfruttato come un burattino dai Cantoni Svizzeri, che dopo le tante vittorie nel corso degli anni si erano trasformati in una potenza regionale. I Francesi avevano ridotto gli stati italiani all'impotenza dopo le continue invasioni, anche l'astro di Venezia si era affievolito. Per l'Italia si stava per aprire un periodo di continue dominazioni straniere: sembrava che per primi toccasse agli svizzeri, adesso signori della Valtravaglia, Valcuvia e della Val D'Ossola (in mano ai Vallesi).

Eppure l'Italia non si sarebbe piegata né ai francesi né tantomeno agli svizzeri, ma avrebbe presto il suo posto nel sogno imperiale di Carlo V. Tuttavia in quel momento la Francia risultava essere l'unico alleato contro la Svizzera: Francesco I aveva attraversato le Alpi con 50.000 uomini e 70 cannoni, deciso a prendere il controllo del ricco Ducato. Colti di sorpresa, gli svizzeri abbandonarono i Colli del Monginevro e ripararono a Milano, dove la popolazione era stremata dal malgoverno di Massimiliano e dalle ruberie degli elvetici. A Gallarate si venne alla stipula di un accordo: i francesi offrivano concessioni agli svizzeri, ma in realtà negoziavano con il Papa alle spalle dei confederati. Dopo la firma del trattato, il Canton Berna, Friburgo, Vallese e Soletta, si ritirarono con 10 000 dei propri soldati, indebolendo le forze del Ducato di Milano.

L'esercito Svizzero agì comunque con grande coraggio.
Invece di attendere all'interno delle vecchie mura Milanesi, incapaci di reggere a un bombardamento, e soprattutto per il timore di un insurrezione dei cittadini, i confederati marciarono contro i francesi, intercettandoli nei pressi del villaggio di Zivido, sulle sponde al Lambro. L'armata francese era imponente: 2.500 gendarmi pesanti a cavallo, 1.500 cavalleggeri italiani, 10.000 fanti mercenari francesi, italiani, guasconi, baschi, 9.000 lanzichenecchi, tra cui i temibili veterani dell'armata nera. Questa forza (circa 6000) era chiamata così perché indossavano livree nere, molti simili a quelle bande nere italiane che sarebbero nate 2 anni dopo nelle guerre dD'Urbino. Questi guerrieri sarebbero stati poi tacciati come traditori, perché continueranno a combattere per la Francia contro i loro compratrioti che invece si schierarono per l'Impero.
Infine svariate migliaia di mercenari italiani: anch'essi indossavano livree nere, decisi a vendicare i tantissimi affronti ricevuti dagli svizzeri (come a Morat).
L'armata confederata era formata da 20,000 veterani, i più temuti combattenti sul campo, affiancati da circa 5000 soldati milanesi, ben poco propensi a combattere con i loro dominatori.

I Francesi non si dimostrarono all'altezza della situazione: prima che sorgesse il sole il campo francese venne assalito dagli svizzeri, i quali rubarono molti pezzi di artiglieria e ferirono lo stesso re Francesco I.
I Lanzichenecchi (come accadrà in tanti altri scontri) non ressero il confronto con i picchieri svizzeri: i loro ranghi vennero sfondati, portandosi dietro nella fuga anche i guasconi, i francesi e i baschi. Solo i mercenari italiani tennero duro.
Essi potevano sfruttare le ottime armature pesanti e la superiorità di fuoco donata dagli archibugi per rallentare l'avanzata svizzera.
Fu Gaspard I De Coligny, poi nominato Maresciallo di Francia, a rinserrare i ranghi dell'armata reale, che per un soffio non venne annientata.
Alle quattro del mattino gli svizzeri si accamparono, non essendo riusciti a rompere lo schieramento francese.
Le perdite di questi erano state tantissime (circa 6000 soldati) e la giornata successiva pareva essere in mano agli svizzeri.

Ma la mattina dopo, dalle alture vicine allo scontro, garrì il Leone di San Marco. 12.000 veneziani, al comando di Bartolomeo D'Alviano, si gettarono contro le forze degli odiati svizzeri. Circondati dalle due armate, i confederati tennero duro prima di essere massacrati senza pietà: gli italiani furono spietati, immergendo le lame nei guerrieri elvetici al ricordo dei morti di Morat. Tra gli svizzeri le perdite furono altissime, solo metà dei picchieri riuscì a tornare a casa (circa 10.000 morti).

Marignano rappresentò la fine dell'espansione svizzera: da quel giorno i confederati non si arrischiarono più in offensive extraterritoriali.
La loro influenza sul Ducato di Milano era finita e i loro balliaggi delle valli vennero restituiti ai nuovi dominatori (non prima di aver distrutto e saccheggiato il territorio, facendo scempio di tantissime opere d'arte e castelli, in particolare in Valcuvia).
Ma la guerra era ben lungi dall'essere giunta a una conclusione.
La Francia si ergeva quale nuova vincitrice, anche grazie all'alleanza con la repubblica Veneta, eppure all'orizzonte si addensavano nuvole nere.

E dietro di essere baluginava l'aquila imperiale...

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lunedì 10 settembre 2018

La furia della vecchia confederazione: Morat, 1476




20.000 mercenari circondavano Morat, roccaforte fedele ai cantoni sita sul lago omonimo. Il Duca Carlo I, furibondo per l'ignominosa sconfitta di Grandson (1476), desiderava una rivincita. Ai suoi ordini c'erano arcieri inglesi, picchieri fiamminghi, armigeri italiani (5000) e la sua abilissima cavalleria pesante, l'unica che era riuscita a mettere in difficoltà gli svizzeri nelle precedenti battaglie. Non c'era invece la sua costosa artiglieria, caduta nelle mani degli svizzeri, sebbene fosse riuscito ad acquistarne altri pezzi per rinforzare le palizzate del suo campo.
Non mancavano neppure i Savoiardi del conte Romont, in gran parte cavalleggeri, che si posizionarono a nord per intercettare i rinforzi degli svizzeri.

Il Temerario schierò le truppe per accogliere i nemici, che riteneva sarebbero giunti dalla direttiva del ruscello di Burggraben. Al centro fece costruire un'imponente opera di trinceramenti e palizzate, dove si posizionò la maggior parte della fanteria non impegnata nell'assedio. Alla destra si schierarono i gendarmi, che con le loro spade, azze e alabarde avrebbero dovuto aprirsi un varco nel porcospino svizzero. L'artiglieria era a sinistra, situata su un avvallamento scosceso che permetteva di bombardare senza ostacoli le truppe confederate. Sembrava un piano perfetto, ma il destino non arrise ai borgognoni.

Mentre in città si combatteva lungo le brecce, le forze del Temerario ricevettero più volte notizia dell'imminente arrivo dei confederati, dunque non mollarono mai i loro posti dietro le palizzate, sempre sul chi vive. All'alba del 22 giugno sembrava che la battaglia stesse per iniziare, le voci dell'arrivo dei ribelli si rincorrevano per il campo. Ma i militi del Duca rimasero per ore sotto la pioggia senza vedere alcun avversario, tanto che Carlo fece smontare i cavalieri e distribuì il pasto di mezzogiorno. Era pure giorno di paga per i mercenari. Rimasero alla palizzata solo 3000 uomini, stretti nei mantelli e sferzati dalla pioggia
Fu in quel momento che gli svizzeri calarono sul nemico.

L'avanguardia, 6000 fanti e 1200 cavalieri, emerse dalla foresta di Birchenwald, nel punto esatto predetta dal duca. Insieme a loro marciava il blocco principale dell'esercito confederato: 10.000 picchieri disposti a cuneo, protetti ai fianchi da alabardieri da un ulteriore anello di picchieri in armatura pesante. Una retroguardia di 6000 miliziani chiudeva la colonna svizzera, che non mancava di archibugieri e schioppettieri. Gli svizzeri caricarono a testa bassa la palizzata, i cui difensori combatterono come diavoli per dare tempo ai compagni di organizzarsi.
L'artiglieria riuscì a sparare poche salve, ma inflisse un grave scotto ai confederati, stretti in quella falange. Non appena un gruppo di picchieri trovò un sentiero sinistro senza protezione, la palizzata venne travolta del tutto. I difensori vennero trucidati e l'armata svizzera calò sul campo, avvinto dalla confusione. Carlo galoppò in mezzo ai suoi uomini nel tentativo di riunirli, ma gli attacchi dei mercenari si infrangevano contro l'inesorabile muro di picche. Sebbene i cavalieri pesanti riuscirono a mettere in rotta i soldati di Lorena, la battaglia era ormai perduta.

Carlo Il Temerario dovette dare con cuore grave l'ordine di ritirata, che si trasformò in una rotta. Gli svizzeri erano furibondi per l'affronto di Grandson, dove 400 connazionali erano stati impiccati senza pietà, dunque sfogarono la propria rabbia contro i mercenari in fuga.
Morirono quasi 10.000 uomini, non vennero risparmiati neppure i seguiti di donne e civili che erano soliti seguire gli eserciti dell'epoca. Mentre i Savoiardi riuscirono a fuggire insieme ai cavalieri grazie ai loro destrieri e alla posizione defilata, per gli italiani fu un eccidio.
Essi avevano combattuto sulle sponde del lago sia contro i confederati che contro i difensori della città riunitisi in una sortita. Tennero duro per l'intera giornata, infliggendo grandi perdite ai nemici, ma alla fine dovettero cedere. Non ci fu pietà per quei mercenari, stretti tra lago e picche nemiche, che vennero praticamente sterminati.
Fu un evento terribile per il mercenariato italiano, tale da rimanere nelle coscienze dei peninsulari fino alla battaglia di Marignano (1513), dove le armate "nere" italiane riservarono lo stesso trattamento ai mercenari confederati.

Il duca Carlo era invece riuscito a sopravvivere ancora una volta alla disfatta, ma la sua reputazione era in pezzi. Il suo istinto guerriero non si era ancora placato e, in un ultimo tentativo di riconquistare il suo onore, sarebbe morto in battaglia.


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sabato 8 settembre 2018

Avanti, Tridentina! La battaglia di Nikolajewka, 26 gennaio 1943


Con l'offensiva Ostrogožsk-Rossoš', la terza grande spinta per intrappolare le forze dell'Asse e distruggerle, i russi danno inizio a quella che noi conosciamo come Seconda battaglia difensiva del Don, mentre le Divisioni di Fanteria italiane, battute, iniziano quella marcia di ripiegamento da incubo in cui i morti e i congelati si conteranno a migliaia.
Il Corpo d'armata alpino, ultimo corpo ancora efficiente dell'8ª Armata italiana in Russia, riceve l'ordine di resistere sulle proprie posizioni per non essere accerchiato. Ma dopo aver sfondato le linee tedesche a sud e quelle ungheresi a nord, i russi possono intrappolare gli italiani, il cui fronte centrale non è caduto. Per non essere annientate, le nostre formazioni, cui si aggregano migliaia di rumeni, ungheresi e tedeschi, iniziano la durissima marcia per rientrare entro le linee amiche. Oltre al gelo, alla mancanza di mezzi, vestiti, cibo, medicine e armi, i soldati italiani devono subire i frequenti e improvvisi attacchi russi, oltre a dover pagare altissimi tributi di sangue per forzare i blocchi sovietici.

Dopo 15 drammatici giorni e 200 km punteggiati da perdite e sacrifici, la mattina del 26 gennaio le colonne in ritirata giungono davanti a Nikolajewka, un piccolo villaggio eretto su una modesta collinetta. Circa tre battaglioni russi supportati dai partigiani si sono arroccati fra le isbe, sfruttando il terrapieno della ferrovia, trincee e muri per trasformare il villaggio in una piccola fortezza. Per aprire la strada ai 40.000 uomini semi-congelati e quasi disarmati, bisogna affidarsi agli unici ancora in grado di affrontare uno scontro tanto duro: gli alpini della divisone Tridentina. Potendo contare sul supporto di fuoco del gruppo artiglieria Bergamo e di tre semoventi tedeschi, gli alpini a colpi di fucili e bombe a mano riescono a snidare i tenaci difensori dalla prima linea di difesa. Viene raggiunta la scarpata della ferrovia e i mitraglieri possono appostarsi nelle isbe appena sottratte al nemico. La reazione russa è violentissima: per tutta la mattina si procede ad assalti e contrassalti, con feroci scontri ravvicinati con bombe, fucili e pugnali casa per casa.

Inchiodati dal fuoco intensissimo dei sovietici, supportati dagli aerei che mitragliano a bassa quota, dalle mitragliatrici appostate che fanno strage e da un maggior numero di armi pesanti, nonostante i rinforzi che giungono verso mezzogiorno, gli alpini disperano di poter conquistare Nikolajewka, tanto che gli ufficiali si lanciano alla testa dei reparti per catturare il villaggio prima che il calar del sole sancisca una notte all'addiaccio e alla mercé del nemico. Il Capo di Stato Maggiore del Corpo d'Armata Alpino Giulio Martinat, vedendo gli alpini del suo battaglione Edolo andare all'assalto, dichiara «Ho cominciato con l'"Edolo", voglio finire con l'"Edolo"» per poi cedere al suo istinto di soldato, imbracciare un fucile e lanciarsi all'attacco coi suoi, incitandoli con le parole «Avanti alpini, avanti di là c'è l'Italia, avanti!» prima di venire mortalmente colpito.

Quando ormai la speranza sta per cedere il passo alla disperazione, il generale Luigi Reverberi balza su l'ultimo carro armato utile e con la pistola in pugno lancia il mezzo contro le linee nemiche al grido di «Avanti, Tridentina!». Il gesto e il grido elettrizzano sia i combattenti che la massa di sbandati, che incuranti del pericolo si lanciano come una valanga umana contro gli atterriti russi, che fuggono lasciando le armi e i morti dietro di sé. Con la via finalmente aperta, la strada per Shebekino, il luogo dove finirà la tremenda marcia, è aperta. Ma a che costo?
Sulla neve di Nikolajewka rimangono 3.000 penne nere e 39 ufficiali, un altissimo tributo pagato per permettere alle colonne di commilitoni di trovare la salvezza e un possibile ritorno a casa.

Citando il canto Sul ponte di Perati:

Gli Alpini fan la storia,
la storia vera:
l'han scritta con il sangue
e la penna nera.

Artwork di Giuseppe Rava

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giovedì 6 settembre 2018

Una confederazione di guerrieri: Grandson, 1476



412 uomini pendevano lividi dagli alberi.
La guarnigione di Grandson si era arresa al Duca di Borgogna Carlo il Temerario, ma il francese non aveva rispettato il patto. Così per quattro ore i soldati e il loro seguito dovettero osservare i propri compagni venire impiccati, in attesa del proprio turno.

Carlo, con la sua cavalleria pesante e i suoi cannoni, era convinto che avrebbe avuto presto ragione di quei selvaggi ribelli della Confederazione Svizzera.
Le truppe di Zurigo, Berna, Lucerna, Uri, Svitto, Unterwalden, Glarona e Zugo, rinforzate da altre forze giunte dai paesi attigui, in realtà non temevano né cavalli né bombarde, ma anzi marciavano a spron battuto nella speranza di salvare i propri compagni di Grandson. Divisi in tre gruppi di armata, le forze cantonali andarono incontro all'esercito di Carlo senza incontrare né esploratori né avanguardie, poiché il Duca, nonostante fosse un ottimo generale, aveva dato per scontato che gli svizzeri non si facessero vedere.
Convinto che fosse solo l'avanguardia dell'esercito confederato, il Duca schierò la sua armata senza indagare oltre, schierando cavalleria e mercenari in formazione di attacco. L'artiglieria, che era pensata più che altro per gli assedi, venne armata, ma non abbiamo riscontri del suo reale impatto sulla battaglia. Certo è che il parco artiglieria di Carlo doveva essere imponente, mentre numerosi archibugi, bombardelle e scoppietti (di probabile produzione italiana, poiché la maggior parte delle botteghe di armi manesche dell'epoca si trovavano appunto in Italia) vennero utilizzati da entrambe le armate.

La prima colonna svizzera si piegò in preghiera. A sentire gli Ave Maria e i Padre Nostro, i borgognoni credettero che gli svizzeri volessero arrendersi, dunque si gettarono all'assalto al grido "Dovete morire tutti, nessuna pietà!". La cavalleria pesante agì molto bene: inflisse gravi perdite ai confederati e circondò il muro di picche. Tuttavia Carlo decise di farla ritirare, così da bombardare con cannoni e archibugi la formazione serrata dagli svizzeri. Fu in questo momento che le altre due colonne confederate emersero urlando dalla foresta vicina, travolgendo il fianco della fanteria borgogna. L'esercito del Duca sbandò molto in fretta e quasi senza colpo ferire si diede alla fuga, lasciando in mani confederate l'artiglieria e le salmerie.
Carlo, sebbene tentò fino all'ultimo di riunire i suoi uomini, fu costretto a scappare. Con pochissime perdite da ambo le parti, gli svizzeri avevano umiliato uno dei più spietati e abili generali del momento. Ma non sarebbe finita lì.

I soldati dei cantoni scoprirono i corpi appesi dei propri connazionali. Quello che per Carlo doveva essere il modo per piegare la volontà degli Svizzeri si dimostrò l'esatto contrario: furibondi, i picchieri delle montagne giurarono che i borgognoni l'avrebbero pagata cara.
E l'occasione per ciò sarebbe giunta molto presto...

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mercoledì 5 settembre 2018

Magnifico, ma questa non è guerra: la carica della brigata leggere



Mezza lega, mezza lega
avanti, una mezza lega,
nella valle della Morte
cavalcarono tutti i seicento

25 ottobre 1854, Crimea. Le forze russe attaccano il campo britannico di Balaklava, nel tentativo di rompere l'assedio di Sebastopoli. Durante gli scontri che seguono fra soldati dello zar e truppe franco-inglesi, i russi riescono a catturare i cannoni navali dei turchi posizionati sulle alture Causeway e iniziano a rimuoverli. Non essendo ancora arrivate le due divisioni di fanteria richieste e avendo a disposizione solo due brigate di cavalleria, il comandante inglese Lord Raglan comanda al capitano Nolan di portare al marchese di Lucan l'ordine di attaccare i russi coi suoi cavalieri. Quando il marchese chiede a quali cannoni si riferisce l'ordine, non riuscendo a vedere il fianco destro occupato dai russi, Nolan indica con veemenza i quattordici cannoni dietro i quali si è raggruppata la cavalleria respinta dal 93° Highlanders, la famosa "sottile linea rossa".

Lucan ordina al marchese di Cardigan di caricare con la brigata leggera, mentre lui seguirà con la brigata pesante. Quando i dragoni leggeri, i lancieri e gli ussari di Cardigan entrano nella vallata, si fa chiaro che l'impresa è suicida: fra i cavalli britannici e le bocche da fuoco nemiche ci sono quasi 2 km di terreno aperto e pianeggiante, da percorrere sotto il fuoco d'infilata provenienti dai cannoni e dai fucilieri russi schierati sui pendii a lato della vallata. Nolan non può chiarire il malinteso, in quanto è uno dei primissimi a cadere; Lucan, rendendosi conto della situazione, arresta la brigata pesante e lascia che i 673 cavalleggeri di Cardigan attacchino da soli.
I russi sono sconvolti. Pensano che gli inglesi siano ubriachi, e aprono il fuoco sugli assalitori con tutto quello che hanno.

Cannoni alla loro destra,
cannoni alla loro sinistra,
cannoni davanti a loro
sparavano e tuonavano;
tempestati da palle e proiettili,
cavalcarono coraggiosamente dritti
nelle mandibole della Morte,
nella bocca dell'Inferno
cavalcarono i seicento.

I cavelleggeri trottano per alcuni minuti sotto il fuoco intensissimo proveniente da ogni lato, ma non si arrestano. Quando ormai sono così vicini da poter vedere gli artiglieri russi in faccia, spronano i cavalli e si lanciano alla carica, aprendosi un varco a sciabolate. La brigata leggera come un cuneo sfonda la massa della cavalleria russa, 5.240 soldati, prima di venir respinta dall'enorme superiorità numerica del nemico e ritirarsi. Gli artiglieri superstiti tornano immediatamente in posizione e ricominciano a sparare sugli inglesi in ritirata con palle di cannone e mitraglie. Almeno da un fianco non giunge più il fuoco dei russi, aggrediti dalla cavalleria coloniale francese.

I britannici ebbero 156 morti, 122 feriti e rimasero con soli 195 uomini ancora a cavallo. I russi ebbero qualche centinaio di perdite, ma mantennero la posizione e i cannoni, risultando vincitori dello scontro. In seguito a questo episodio audace, la reputazione della cavalleria inglese ne risultò fortemente aumentata, mentre quella dei loro comandanti ne venne intaccata.
Infatti ad oggi ancora non sono chiare le dinamiche che portarono al fraintendimento, ma quel che è certo è che rivalità e odii personali che avvelenavano i rapporti fra alcuni comandanti inglesi, specialmente Raglan e Lucan, furono tra le cause di quello che successe quel giorno.

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martedì 4 settembre 2018

I "latini" del nord, mercanti e cavalieri: i veneti



Nel territorio compreso tra il Lago di Garda e i Colli Euganei, fino a lambire i confini del Tagliamento e dell'Isonzo, troviamo il popolo che più d'ogni altro è ancora vivo nel sangue dei suoi discendenti: i Veneti, o Venetici.
Sono tantissimi i reperti che questa gente ha lasciato agli storici e agli archeologi, i quali hanno potuto ricostruire numerosi aspetti dei signori dell'est. I romani, nella loro proverbiale amicizia con i Veneti, li fanno discendere all'eroe divinizzato Diomede, che avrebbe fondato la città di Adria (sebbene poi si sia rivelata quest'ultimo un emporio greco gallico, piuttosto che veneto). Secondo Plinio il vecchio sarebbero degli esuli di Troia, altri autori come Strabone li tacciano quali celti, ma la storiografia moderna individua le loro origini nell'oriente: alcuni proprendono per un origine illirica balcanica, altri parlano invece di un legame diretto con gli oscoumbri, sulla base della grande somiglianza della lingua Veneta con quella Latina.

I Veneti ebbero il proprio massimo sviluppo tra il VIII e il II secolo a.c., per poi fondersi pacificamente ai romani. Questa integrazione ha permesso alla cultura di veneta di sopravvivere nell'alveo latinizzato, tale da mantenere sue caratteristiche uniche fino al medioevo. Essendo all'epoca la pianura padana un'immensa foresta spesso impaludata, i Veneti furono i primi a iniziare i lunghi lavori di disboscamento, fondando numerose città al posto dei villaggi e proto castellieri in cui vivevano inizialmente. Centri importanti furono Padova, Este, Montebelluna, Oppeano e Gazzo Veronese. Si è scoperta anche una grandissima necropoli Venetica a Mel, simbolo dell'avanzamento culturale e dell'opulenza dei veneti. A est la società Venetica si fuse con i clan Illirici (forse loro parenti), dando vita nella zona dell'Isonzo a una cultura chiamata Venetico-Illirica, che presenta elementi di entrambe le culture, sebbene con una dominanza dei più avanzati veneti. I veneti avevano quale dea Reitia, insieme a numerosi altri dei di cui non ci è giunto il nome: dai corredi delle tombe sembra che le donne avessero un ruolo importante nei riti sacri, nonché come guaritrici e incantatrici.

Oltre all'agricoltura e alla selvicoltura, i Veneti si dimostrarono fin da subito ottimi mercanti: stabilirono rotte commerciali con greci, etruschi, liguri e poi romani. L'alto adriatico divenne metà di navigatori egiziani e siriani, con cui i veneti scambiavano bronzo, vetro, ceramica. Al contrario dei loro eredi medievali, i veneti non si spinsero sul mare, ma preferirono commerciare tramite empori che costellavano la costa. Importantissimo era l'allevamento di cavalli, tanto che i veneti vennero fin da subito identificati quali cavalieri dai loro alleati romani, spesso sprovvisti di truppe in arcione.

I Veneti erano un popolo tendenzialmente pacifico, ma svilupparono un apparato militare molto avanzato per affrontare le continue incursioni celtiche, retiche e liguri. Oltre alla cavalleria, appannaggio dei nobili e del loro seguito di cavalleggeri, la fanteria veneta sfruttava delle formazioni proto manipolari, abbandonando le formazioni oplitiche di stampo etrusco. Le armi usate erano lunghe lance e scudi rotondi, mentre l'armatura pesante era poco utilizzata, preferendo piuttosto un combattimento agile e basato su contrattacchi e ritirate. Il contatto con i celti portò i veneti a fare uso anche di lunghe spade, scudi ovoidali e forse armature in cotta di maglia. L'esercito veneto si dimostrò estramemente efficace a respingere i galli invasori: non solo non vennero invasi, ma probabilmente fu il loro attacco alle forze di Brenno a salvare Roma dall'annientamento. I Veneti si integrarono alla perfezione nelle armate romane e fino alla loro inclusione nella repubblica fornirono eccelse unità alleate (socii), che combatterono contro tutti i grandi nemici dell'Urbe.

La lingua veneta rimane di classificazione incerta, ma si indicano due alfabeti di epoca diversa, contemporanei all'utilizzo della scrittura: quello etruscoide del VI secolo a.c. e quello greco romano del III secolo a.c. La presenza di fonemi latini e indoeuropei, che fanno pensare che entrambi agli idiomi siano giunti in Italia dalla medesima migrazione (dunque i veneti sarebbero stretti parenti dei Latini, che invece di fermarsi a nord scesero verso sud). Ciò potrebbe essere la spiegazione per cui Veneti e Latini furono sempre alleati e che i secondi consideravano i primi come loro parenti.

FONTI
Storia della Prima Italia, Massimo Pallottino.
Preistoria e Storia delle Regioni D'Italia, Gianna G. Buti
Reitia, Dea dei Veneti, Piero Favero
La situla Benvenuti di Este. Il poema figurato degli antichi Veneti, Luca Zaghetto

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lunedì 3 settembre 2018

Il dittatore cannibale: Idi Amin Dada (????-2003)


Centoventi chili per quasi due metri d'altezza, un gigante che incuteva terrore ma nello stesso tempo aveva qualcosa di goffo. "Un killer e un clown", come il Time descrisse il folle che dal 1971 al 1979 spadroneggiò sullo Stato centroafricano dell'Uganda, guadagnandosi soprannomi come "macellaio" e "dittatore cannibale".

«Solo Dio conosce la mia età» amava dire Idi Amin, e infatti ancora non si sa con certezza se sia nato nel 1924, nel '25 o nel '28, nell'area di Koboko, nel Nord-ovest del paese. Il padre aveva abbandonato il cristianesimo per la parola di Maometto, la madre era una sorta di guaritrice e lui frequentò pochissimo la scuola, rimanendo semi-analfabeta. Dopo un'adolescenza segnata dalla povertà e l'abbandono paterno, entrò nell'esercito coloniale britannico (l'Uganda era un protettorato inglese dal 1894) dove si guadagnò il nomignolo di "Dada", il nome con cui indicava le donne che frequentava spesso, termine traducibile come "sorella maggiore". Per assonanza, gli inglesi lo chiamavano invece Big Daddy.

In Kenya e in Somalia si distinse per la sua abilità (e la sua spietatezza) nel contrastare i movimenti di guerriglia anti-coloniale, tanto da essere promosso ed essere richiamato in Uganda per contrastare i ladri di bestiame, evirando col machete chiunque si rifiutasse di collaborare. La sua brutalità gli servì anche per vincere il titolo nazionale di campione dei pesi massimi di pugilato fra il 1951 e il 1960. Simpatico ai britannici, grazie al loro appoggio venne promosso a vicecomandante quando al paese venne concessa l'indipendenza nel 1962. Lui e il premier Obote guadagnarono milioni trafficando oro, armi, caffè e avorio con i contrabbandieri del Congo e dello Zaire. Rischiando di venire indagati e condannati, nel 1966 Obote mise in atto un colpo di stato scalzando il presidente Mutesa II e nominando Amin capo supremo dell'esercito. Il generale continuò ad arricchirsi intascando i finanziamenti destinati all'esercito, e per evitare l'arresto, nel gennaio del 1971 rovesciò il governo dell'ex-alleato Obote col favore dell'Occidente (in chiave anti-sovietica) e del popolo (promise riforme e libertà).

Il dittatore organizzò subito squadroni della morte per eliminare i presunti sostenitori di Obote, i capi militari dissidenti e gli intellettuali che criticavano il nascente regime. Il Nile Mansion Hotel, elegante albergo della capitale Kampala, divenne un centro di torture e sterminio dove i presunti nemici venivano sottoposti a sadici supplizi ideati da Dada stesso. Nell'agosto del 1972 gli ugandesi lo udirono dire alla radio «Allah mi è apparso in sogno e mi ha ordinato di cacciare dalla nostra terra tutti gli asiatici». I 50.000 asiatici, principalmente indiani e pachistani, furono costretti a lasciare il paese, che fu indebolito dato che molti asiatici gestivano imprese produttive che furono sequestrate dal dittatore. Il repulisti coinvolse anche il popolo degli Acholi e altre minoranze, colpevoli di essere pro-Obote. «I miei nemici? li taglio a pezzi e poi getto la carne ai coccodrilli» dichiarò l'ex-pugile parlando di loro alla stampa.

Forse reso pazzo dalla neuro-sifilide, fra le sue follie si annovera l'essersi presentato a Londra di fronte alla regina Elisabetta II con tre tonnellate di banane «per sfamare i poveri bambini inglesi», oltre a vantarsi con la sovrana di poter controllare i coccodrilli col pensiero. Adorava indossare sempre un'uniforme decorata da medaglie e decorazioni, alcune inventate da lui stesso, altre reali (come una medaglia del touring club austriaco). Oltre alle decorazioni, amava inventare e insignirsi di titoli come "Signore di tutte le bestie della terra e dei pesci del mare e conquistatore dell'Impero britannico, in Africa in generale, in Uganda in particolare" o "Re di Scozia". Ma molto più pericolose furono le sue follie geopolitiche. Dopo essersi alienato le simpatie di Israele e USA dopo aver elogiato Hitler e aver intrecciato rapporti coi sovietici, si inventò che alcuni territori di Kenya e Sudan erano in realtà ugandesi, minacciando di invadere anche il Sudafrica.

Nel 1976 offrì ospitalità ad alcuni terroristi palestinesi che avevano dirottato un volo Air France con decine di israeliani a bordo. Nella notte del 3 luglio le forze speciali israeliane risolsero la questione con un blitz presso l'aeroporto di Entebbe che distrusse i caccia ugandesi e danneggiò l'immagine del regime. Nello stesso periodo la verità iniziò ad emergere, e il resto del mondo conobbe la vera natura del capo di stato finora considerato solo comico e grottesco, che in un tentativo di rifarsi dello smacco di Entebbe dichiarò guerra alla Tanzania nel 1978. Ma l'esercito nemico, aiutato da esuli ugandesi, contrattaccò e lo costrinse alla fuga l'11 aprile 1979. L'ex "Invincibile" (come amava chiamarsi) riparò prima in Libia, poi in Iraq e infine in Arabia Saudita, dove morì nel 2003 per una malattia ai reni.

L'orco clownesco che aveva gestito il paese con logiche tribali aveva massacrato fra le 300.000 e le 500.000 persone di un paese che contava appena 12 milioni di abitanti. Il sospetto che il dittatore avesse praticato il cannibalismo, come un tempo si faceva nel paese nel corso di alcuni rituali, venne rafforzato dal fatto che nel suo palazzo vennero trovate celle frigorifere colme di arti umani, bulbi oculari, labbra, nasi e testicoli.

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venerdì 31 agosto 2018

I cantoni non cedono terreno: Sempach, 1386



Il borgo di Sempach era sotto assedio.
I soldati di Leopoldo III D'Austria dileggiavano i soldati riparati dietro le mura. Un cavaliere faceva ondeggiare il cappio, dicendo che presto sarebbe stato l'ornamento dei borgomastri della città. Altri, che vedevano i loro compagni falciare le scorte di grano fuori dall'insediamento, invitavano i difensori a portare loro la colazione.
D'un tratto, però, dalle mura qualcuno rispose: "Saranno quelli di Lucerna e i loro alleati a portarvi la colazione!".

Il 9 luglio all'orizzonte apparvero gli stendardi dei cantoni dell'antica confederazione svizzera: il toro di Uri, la bandiera rosso e bianca del Schywz, la banda rossa in campo bianco dell'Unterwalden, lo scudo di Lucerna. 6000 uomini, in gran parte militi armati di picca e alabarda, si precipitavano per affrontare un esercito di professionisti della guerra, tra cui più di 1500 cavalieri al servizio della casata degli Asburgo. Entrambe le armate si trovarono di fronte a due chilometri dalla cittadina, sorprese dal vedere il nemico venirgli incontro con tale foga.

Gli svizzeri presero subito possesso di un altura, per cui i cavalieri asburgo dovettero smontare per lanciarsi all'attacco. Alcuni furono costretti a staccare gli speroni dalle calzature, poiché ostacolavano i movimenti nello scontro. Mentre la mischia si sviluppava lungo tutta la cresta del colle, gli svizzeri riuscirono a formare i propri ranghi di picchieri, con cui sfondarono il fianco dei cavalieri. Per rispondere a questa manovra, gli austriaci e i mercenari al loro servizio aprirono la propria formazione in una linea più larga, riuscendo ad evitare l'accerchiamento ma trovando sfilacciati e incapaci di reggere al seguento urto svizzero. Infatti se da una parte i cavalieri invasori erano indubbiamente meglio armati e più abili dei miliziani svizzeri, l'armatura pesante sfibrava le loro forze, mentre la calura estiva riscaldave le cotte e gli elmi. Unendo alla sottostima che i nobili avevano per questi contadini male armati, presto il muro di picche svizzero iniziò a trasformare la linea di battaglia austriaca in una serie di capannelli di soldati isolati, senza alcuna coordinazione.

La storiografia svizzera di parla anche dell'eroico sacrificio di Arnold Von Winkelried, il quale si lanciò sulle picche nemiche spezzandole con il proprio peso, tale da permettere ai compagni di infilarsi nella formazione.
Vero o invezione, gli svizzeri ruppero le fila degli invasori e dopo averli messi in fuga si gettarono a predare il ricco bottino lasciato sul campo dai cavalieri austriaci. Lo stesso duca e numerosi nobili vennero uccisi dai miliziani furibondi, non usi alle normali regole di cavalleria che imperavano per tutta l'Europa.

La vittoria della confederazione non fu solo uno dei tasselli per lo sviluppo della Svizzera odierna, ma rappresentò anche l'inizio della fama degli svizzeri quali guerrieri, fama che li consentì di diventare tra i mercenari più richiesti dell'Occidente.


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giovedì 30 agosto 2018

Strage nei Campi Catalaunici (20 giugno 451)



L'Impero romano è ormai al tramonto. Il portentoso edificio costruito dagli Scipioni, da Cesare, da Augusto, da Traiano, sta crollando, un pezzo alla volta, sotto ai colpi di carestie, ribellioni, crisi e l'arrivo dei popoli migratori. Vere e proprie orde, decine di migliaia di guerrieri, ma anche donne, vecchi e bambini che sfuggono non solo da un clima sempre più inclemente, ma anche dall'inesorabile avanzata di un nemico invincibile, che offe solo la resa o la distruzione totale. Guidati dal terribile Attila, gli Unni hanno costruito con le ossa e col sangue un impero che va si estende per oltre 4.5000 chilometri dalle steppe caucasiche fino al Reno e al Danubio. Con i due imperi, d'Occidente e d'Oriente, Attila ha sempre avuto rapporti complessi, di collaborazione e di conflitto: riceve un tributo regolare dall'imperatore d'Oriente ed è stato insignito del titolo di magister militum. Il suo matrimonio con Onoria, la sorella dell'imperatore Valentiniano III potrebbe legare il destino del capo unno a quello della famiglia imperiale, ma Valentiniano stesso è contrario, così come Flavio Ezio, il comandante supremo dell'esercito dell'impero d'Occidente.

Figlio di una patrizia e un generale germanico, Ezio era il perfetto esempio di quella commistione fra barbari e romani che caratterizzò l'epoca tardo-antica. Da giovane era stato tenuto come ostaggio presso gli Unni e dunque aveva avuto modo di comprendere come ragionassero, come combattessero e come batterli. Il mancato matrimonio e altre questioni dinastiche minori spingono Attila ad invadere il nord della Gallia nella primavera del 451 con un gran numero di popoli alleati. Nessuna città incontrata sul cammino, tranne Parigi, "salvata" da Santa Genoveffa, scampa al saccheggio, fino a quando l'esercito del re unno giunge davanti alle porte di Aurelianum, l'odierna Orléans. La città, difesa dai fedeli alani di re Sangibono, era la porta per raggiungere la Gallia sud-occidentale governata dai visigoti di Teodorico I. Ma proprio quando gli unni e i loro alleati sono sul punto di prendere la città sulla Loira, appare l'esercito di Ezio, che è riuscito a convincere Teodorico a unirsi a lui per contrastare l'invasore. Non volendo rimanere chiuso in una sacca, Attila abbandona l'assedio e si ritira in buon ordine per cercare un campo adeguato alla battaglia. La sua armata si ferma infine in una pianura dello Champagne, i Campus Mauriacus, i cosiddetti Campi Catalunici, un terreno particolarmente adatto alle manovre della cavalleria.

Pochi giorni dopo l'armata di Ezio raggiunge il nemico e pone il campo, in attesa dei Franchi sali di re Meroveo, il capostipite della prima dinastia di monarchi francesi. Nella notte tra il 19 e il 20 giugno, mentre gli dei profetizzavano ad Attila tramite gli sciamani che perderà la battaglia ma ucciderà il capo nemico, giungono sul campo i Franchi di Meroveo, che nella notte chiara ingaggiano battaglia con gli odiati Gepidi. Si accendono mischie sparse in cui gli uomini si pugnalano e si fanno a pezzi al buio, senza neanche vedere il volto di vittime e carnefici. Lo scontro è di una ferocia spaventosa, tanto che solo in quella notte lo storico Giordane parla, sicuramente esagerando, di 30.000 morti. Al mattino dopo le due armate si schierano per la battaglia. Sembra più che altro un grande scontro fra etnie e tribù germaniche più che uno fra Unni e Romani. Infatti dalla parte di Ezio combattono Visigoti, Alani, Franchi sali, Sassoni, Burgundi e Armoricani, mentre Attila conta sul supporto di Rugi, Sciri, Turingi, Franchi, Eruli, Ostrogoti e altri Burgundi.
La prima mossa di entrambi i generali è di cercare di occupare una piccola altura, conquistata da Ezio prima di Attila. Il re degli unni, forse perché ricordando l'oracolo non vuole subire troppe perdite, non si affretta ad attaccare, lanciando i suoi cavalieri alla carica solo verso le tre del pomeriggio. Gli Alani scricchiolano sotto la pioggia di frecce e l'urto degli abilissimi cavalieri delle steppe, ma sono stati messi al centro da Ezio proprio perché sono in grado di contrastare le tattiche degli Unni, che vengono respinti con pesanti perdite. Intanto sul lato sinistro di Ezio i Gepidi, provati dai combattimenti notturni, non riescono a sfondare il muro di scudi romano-franco, nonostante il supporto di Rugi, Sciri e Turingi, e vengon incalzati dai disciplinati guerrieri.

Ma è sul lato destro che si scatena la strage peggiore, lo scontro fratricida fra i Goti. Le asce, le frecce e la lance si conficcano negli scudi e nei corpi dei guerrieri prima che le masse urlanti di Visigoti e Ostrogoti cozzano l'una contro l'altra come due valanghe d'acciaio e carne. Le asce spaccano scudi e crani, le lame mozzano teste e arti mentre il sangue scorre a fiumi fra i cumuli di cadaveri trucidati. Nella mischia cade il re Teodorico I, il capo la cui morte era stata annunciata dal vaticino, ma anche molti altri principi e signori trovano la morte. Vedendo le proprie linee scricchiolare e rischiare l'annientamento della propria armata, Attila fa suonare la ritirata per ritirarsi nel proprio campo, deciso a vendere cara la vita. Erige una pira funebre al centro del campo, deciso a buttarcisi dentro piuttosto che concedere a un nemico l'onore di averlo ferito.
Ma Ezio teme che senza gli Unni l'alleanza coi Visigoti avrebbe perso ragione di essere, e così congeda gli alleati Franchi e Visigoti e permette agli avversari di lasciare il campo senza ulteriori scontri.
Alla fine di quella giornata di sangue, secondo le fonti rimasero fra i 162.000 e i 300.000 morti, sicuramente un'esagerazione, ma che ci fa comprendere quale dovesse essere la portata del massacro.


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mercoledì 29 agosto 2018

Duri come la montagna, floridi come il mare: i Liguri



(Nell'immagine, Troy: last war of the Heroic Age. Utilizzata per sottolineare l'uso dell'arco, la presenza di fortificazioni, l'abbigliamento degli attaccanti di stampo etrusco e dei difensori liguri. Dovrebbe ricreare in tale uso un attacco da parte degli etruschi a uno dei castellieri del popolo ligure).

La popolazione dei Liguri ha un passato glorioso, il cui valore indiscusso per la storia d'Italia li ha portati ad essere legati ai miti greci e latini. Nelle Argonautiche Giasone dovette nascondersi ai liguri tramite incantesimi, nell'Eneide i liguri furono tra i pochi alleati di Enea nella guerra contro i Rutuli, Eschilo esalta le abilità militare di questo popolo guerriero. Le tribù ligure non si limitavano alla regione a cui hanno dato il nome, ma si espansero in lungo e largo per Italia, Francia, Spagna. Si attesta la presenza di liguri in Sicilia (tanto che gli scrittori romani consideravano i siculi e i sicani come discendenti dei liguri), in Toscana (Mugello e Casentino) in Corsica, in Sardegna, in Piemonte, nella pianura Padana e pure nella penisola Iberica e nelle Francia meridionale.

Con l'espansione celtica parte dei liguri dovettero arretrare nel territorio della Liguria oppure mescolarsi con i nuovi conquistatori (non sappiamo se vi furono conflitti o integrazione pacifiche). Genti come i Taurini, gli Insubri e i Leponzi devono molto della loro cultura ai liguri (nonché agli etruschi) e molto probabilmente erano essi stessi di origine ligure. La tecnica di costruzione dei castellieri, per esempio, è un tipico retaggio ligure, che si espansa per tutta l'Europa cosiddetta barbarica. La potenza e la ricchezza dei Liguri li ha portati ad avere contatti con Etruschi, Greci e Cartaginesi.

La politica espansionistica degli Etruschi fu proprio arginata dai Liguri, i quali resistettero alle spedizioni dei vicini per poi contrattaccare. è testimoniato che tutti gli insediamenti etruschi a nord dell'Arno (es. Pisa), venivano periodicamente assaliti e saccheggiati dalle tribù liguri delle montagne. Gli insediamenti etruschi a nord dell'Arno (es. Pisa), venivano periodicamente assaliti e saccheggiati dalle tribù liguri delle montagne Nel 500 a.c. ci fu la fondazione dell'oppidum di Genua, sviluppatasi come emporio etrusco dal castelliere ligure situato in località Castello. La città si dimostrò essere un importantissimo centro commerciale, tanto da ampliarsi già verso l'odierna Prè, sul rivo Torbido. I liguri presero presto il controllo di questo insediamento, strappandolo agli etruschi.

I Greci ebbero rapporti ambivalenti con i Liguri: la leggenda della fondazione di Massalia ha come protagonisti i liguri, che controllavano anche quei territori in epoca antica. Si racconta che dei coloni Focesi provenienti da Efeso incontrarono un sovrano ligure di nom Nannu, che li invitò a partecipare ad un banchetto. Durante questo la figlia del re, Gyptis, avrebbe scelto il suo sposo tra i commensali. La giovane espresse la sua preferenza per il greco Protis, grazi al quale i greci ebbero il permesso di fondare il loro emporio. La realtà dei fatti fu tuttavia diversa: dopo i primi anni di pace, i greci entrarono in conflitto con i liguri. La forza di questi impedì agli ellenici di espandersi, essi furono costretti a svilupparsi nelle attività commerciali (essendo tante tribù, i liguri non disdegnavano di commerciare con il nemico di un proprio cugino o alleato), che anche grazie ai Liguri divenne il più importante porto della Gallia. In area litorenea clan da segnalare sono i Genuati (Genova), gli Inguani (Albenga e Diano Marina, Verezzi), i Sabazi (Savona). In area montana importantissimi gli Apuani, situati nella Lunigiana, Garfagnana e Versilia. In Piemonte da segnalare gli Statielli di Alessandria, Bagienni della Valle del Tanaro e i Libui del basso Vercellese. Non sono da dimenticare poi i Sebobrigi di Marsiglia e i Corsi di Corsica.

Tra i V e IV secolo a.c. ci sono testimonianze di commerci esercitati dai Liguri con i popoli della Campania, con i Cartaginesi, con gli Ateniesi. Le tribù liguri dell'interno si dedicavano principalmente alla pastorizia, alla ricerca del metallo, alla caccia. Al contrario i clan costiero vivevano spesso di commercio (oltre a essere uno scalo commerciale, i loro paesi costieri producevano miele e vendevano pietre preziose) e di pesca. Sebbene descritti in alcuni casi come primitivi e selvaggi (non conoscevano la scrittura), i liguri arrivarono a commerciare anche la richiestissima ambra baltica, mentre sviluppavano una prima flotta, che i romani indicavano composta da marinai molto abili. Grazie alla loro abilità guerriera, i liguri delle zone più povere si dedicavano all'attività di mercenari, tanto da servire nei ranghi romani quali ausiliari durante le guerre in Africa contro Giugurta. La flotta ligure non disdegnava neppure la pirateria, attività molto comune nel mediterraneo antico.

Rimane ancora un mistero la loro origine: alcuni autori li considerano indoeuropei, altri pre indoeuropei. La prima si lega a un'origine pregallica, viste le similutidini con il popolo celtico, la seconda invece sostiene invece che i liguri siano come gli iberi eredi delle popolazioni sopravvissute alle migrazioni indoeuropee che calarono in Italia nel III millennio a.c. A prescindere da queste difficili elucubrazioni, sappiamo che i liguri ebbero tre periodi: un periodo pre indoeuropeo o proto indoeuropeo in cui parlavano una lingua del tutto scevra di elementi esterni; un periodo proto celtico (II millennio a.c.) e dal 1000 a.c. si parlerebbe una lingua mescolata tra celtico, etrusco e ligure. Tale retaggio molto forte rimase per tutta l'epoca romana, dove si parlò per lungo tempo di etnia ligure (ligures comati, per la loro abitudine di portare i capelli lunghi). Importanti elementi che distinguono la civiltà ligure da quella celtica (portandola ad assomigliare di più a quella nuragica) sono il pantheon divino e i castellieri.

1. Gli dei venerati dai Liguri, le cui incisioni e monumenti si possono trovare nei monti della Liguria e del Piemonte, erano i numi celesti della montagna, come Pen, Beg e Alb. Presente anche Il culto delle matronae acquatiche (come al santuario di Monginevro), delle divinità cornute e del misterioso re divinizzato di nome Cicnu. Solo dal VII secolo a.c. abbiamo corredi funebri simili a quelli celtici.

2. I Castellieri erano fortezze militari che controllavano la mezza costa e i passi montani. Al contrario degli oppidum non erano abitati da civili, ma rappresentavano presidi militari ed eventuale rifugio per le popolazioni minacciate. Ciò è sintomo di un grande sviluppo militare, che è provato dalla fama guerriera dei liguri e delle loro vittorie contro Romani, Etruschi e Greci. Sappiamo che, nonostante non fossero prestanti come i celti, i liguri sfruttavano appieno le tecniche di guerriglia, di tiro con l'arco e di attacco mordi e fuggi. Da segnalare la terribile disfatta che inflissero ai romani nella battaglia di Valle del Magra, nel 186 a.c.

Alla fine i Liguri vennero sottomessi dai Romani, dopo una lunghissima serie di conflitti di cui parleremo approfonditamente in un altro articolo, ma mantennero la propria identità per secoli. Alla caduta dell'impero i loro eredi si dimostrarono degni del loro passato glorioso: ancora adesso la Liguria è popolata da gente dura, abile, capace di affrontare le difficoltà come fecero i loro avi.


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martedì 28 agosto 2018

Khair ed-Din Barbarossa: protettore della fede e flagello del Mediterraneo (1476-1546)



L'eroe nazionale turco, fondatore della marina da guerra ottomana, invincibile ammiraglio di Suleyman e dominatore del Mediterraneo nacque a Mitilene (isola di Lesbo) nel 1476 da una famiglia di origine greco/albanese. Fu il primogenito della coppia, Aruc, ad iniziare l'attività piratesca nelle acque dell'Egeo con alterne fortune. Infatti, dopo essersi liberato dai cavalieri di Rodi che l'avano imprigionato e messo ai remi, raggiunse le coste dell'Africa Settentrionale, portando con sé il fratello Khizr, il futuro ammiraglio. La fama dei fratelli Barbarossa, così chiamati per la barba fulva di Aruc, crebbe insieme alle navi e agli uomini ai loro ordini. La cattura del porto di Djidjelli, fra Tunisi e Algeri, fu il primo passo della conquista della costa nord-africana. Caddero anche Cherchell e Algeri, ma non la fortezza del Penon, eretta dagli spagnoli sull'isola davanti alla città per controllare i traffici marini. Alcune città come Ténés e Tlemcen caddero, mentre altre, come Bugia, resistettero ai loro attacchi. Riconoscendo la difficoltà di contrastare sia le popolazioni locali sia gli spagnoli da solo, nel 1517 Aruc aveva deciso di collegare i suoi domini all'Impero turco, ricevendo dal sultano Selim I il titolo di beylerbeyi (capo dei capi) di Algeri, oltre alle truppe necessarie per reprimere una rivolta e respingere un attacco spagnolo.

Ma proprio nel corso di uno scontro con gli spagnoli, Aruc venne ucciso nel 1518. In memoria del fratello, Khizr iniziò a tingersi la barba di rosso con l'henné, raccolse la sua eredità e si apprestò a diventare il vero e unico Barbarossa.
Nonostante i giannizzeri al suo servizio, Khizr venne sconfitto da un esercito hafsida e dovette abbandonare Algeri, che riconquistò nel giro di pochi anni, dopo aver depredato le coste della Sicilia e del Meridione d'Italia. Fu a quel punto che ricevette il titolo di Khair ed-Din, ovvero "benefattore dell'Islam". Le sue scorribande terrorizzarono la Francia, la Spagna, l'Italia e chiunque dovesse navigare attraverso il Mediterraneo Occidentale. Nel 1526 una sua razzia in Toscana fu sventata dall'ammiraglio genovese Andrea Doria, che divenne la sua nemesi, e con il quale si sarebbe scontrato più volte.

Tre anni dopo, mentre i turchi si preparavano ad assediare Vienna per la prima volta, il Protettore della fede riprese l'offensiva contro le piazzeforti spagnole in Africa. Rase al suolo anche la fortezza del Penon, nonostante l'eroica difesa dell'esigua guarnigione spagnola, trasformando Algeri nella capitale della guerra di corsa nel Mediterraneo da lì fino ai tre secoli successivi. Le sue imprese, che annoveravano decine di navi cristiane catturate o affondate, la devastazione di innumerevoli città, porti e villaggi, il saccheggio di un bottino immenso e il successo nel contrastare spagnoli e genovesi gli procurò l'attenzione di Ibrahim, il visir del sultano Suleyman, grazie al quale ricevette la nomina di kapudan-i dayra, capitano del mare, ovvero comandante supremo della flotta ottomana. Dopo aver riorganizzato e potenziato la flotta del sultano, seminò il panico sul litorale occidentale della Penisola, arrivando a sfidare il rivale Andrea Doria sfilando quasi davanti al suo palazzo. Ma il suo obbiettivo era Tunisi, la cui caduta allarmò l'imperatore Carlo V, in quanto il porto era in una posizione strategica fondamentale per il controllo del canale di Sicilia. La poderosa flotta cristiana guidata dal Doria riconquistò la città e la consegnò al suo precedente signore, Mulay Hasan, mentre il Barbarossa si sottraeva allo scontro e ne approfittava per devastare i possedimenti nemici.

Lasciata Algeri nelle mani del suo pupillo di origini sarde Hassan Agha, ritornò nel Mediterraneo Orientale, dove a fare le spese delle sue incursioni furono i possedimenti veneziani, che caddero o vennero devastati dai suoi uomini. A causa di queste perdite, Venezia si alleò col papa Paolo III, che formò una Lega Santa per contrastare l'espansione musulmana. Le navi spagnole, pontificie e veneziane al comando di Andrea Doria ebbero però la peggio nella battaglia di Prevesa (1538), la più celebrata vittoria del Barbarossa. L'ammiraglio poté così continuare a saccheggiare e conquistare isole e fortezze spagnole, genovesi e veneziane, apparentemente invincibile. Non potendolo convincere ad unirsi a lui, Carlo V intraprese una spedizione contro Algeri nel 1541, guidata da Andrea Doria e Hernàn Cortés, che inutilmente provarono a convincere il sovrano a desistere dall'impresa. Infatti la stagione era pessima e l'attacco fallì. Ancora scosso dalla sconfitta, l'imperatore del Sacro Romano Impero si vide dichiarare guerra dallo storico rivale Francesco I di Francia, alleatosi col Turco.

Il comando dell'immensa flotta fu affidata al Barbarossa che risalì le coste imponendo riscatti e saccheggiando le città che non si piegavano alla sua volontà, come Reggio Calabria, salvata dall'invaghimento che prese l'ammiraglio per la giovane figlia del governatore. La flotta turca dunque assaltò Nizza,ma l'attacco si risolse in una razzia della città, mentre la fortezza resistette agli assalti della flotta franco-turca. Dopo aver svernato a Tolone e inviato squadre per razziare le coste spagnole, sulla via per tornare a Istanbul arrivò a minacciare Genova stessa, razziò le coste sarde, toscane, liguri, laziali e siciliane. Il vecchio ammiraglio, tornato nella capitale nel 1545, costruì un sontuoso palazzo e si ritirò per riposare e dettare le proprie memorie, cinque volumi noti come Gazavat-i Hayreddin Paşa. 
Morì nel suo palazzo l'anno successivo, stroncato da una violente febbre. 
La sua memoria divenne tanto venerata che ancora agli inizi del Seicento nessun viaggio di mare veniva intrapreso da Istanbul senza prima visitare la sua tomba e recitarvi la fatiha, preghiera propiziatoria del Corano.


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Dalle rive del Dora Baltea alla mitica "Taurasia": Salassi e Taurini




Nella Historia della città di Torino, il letterato seicentesco Tesauro parla di un antichissimo mito: Fetonte, figlio di Eridano (che era l'antico nome del Po), dopo aver lasciato l'Egitto giunse in Liguria, oltre la quale trovò una terra fertilissima, attraversata da fiumi come il delta del Nilo. Qui vivevano numerose genti per nulla barbariche, tra cui spiccavano gli adoratori del dio Api, venerato sottoforma di Toro. Il nome di questo popolo, situati nella fantomatica Taurasia, era i Taurini, incontrastati signori del Piemonte centrale. Ma chi erano davvero i Taurini?
Le fonti archeologiche descrivono un popolo che visse in autonomia dal VII secolo a.c. al III secolo a.c. tra la confluenza del Po e la Dora Riparia, nell'area occupata attualmente dalla città di Torino. Le origini di questo popolo sono abbastanza chiare: essi non erano nient'altro che una tribù dei Liguri entrata in contatto con i clan celtizzati, in particolare i Salassi con cui confinavano a nord, e che per questo si distaccarono negli usi e nei riti dai cugini Liguri del sud. Per Plinio e Strabone essi erano infatti definiti come dei Semi-Galli.Al contrario i Salassi, che popolavano la Valle D'Aosta e il Canavese, sembra appartenessero alla cultura di La Thene, di chiara discendenza celtico/gallica. Essi si sarebbero espansi sul finire del VI secolo a.c. calando da nord ed entrando i contatto con i Taurini: qui le fonti sono discordanti. Alcune parlano di terribili conflitti armati, altri di convivenza pacifica. Eppure, quando il potere di Roma e di Cartagine scombussolarono queste regioni, i Salassi e i Taurini si trovarono in due fronti diversi: I Taurini con Roma, i Salassi e gli Insubri dalla parte di Annibale.
Entrambe le popolazioni sono considerate essere le fondatrici di due importanti città. I Taurini avevano come capitale la mitica Taurasia (O Taurinia), che gli storici tendono a situare nella Vanchiglietta dell'odierna città di Torino. Si ricorda inoltre che le truppe di Annibale saccheggiarono Taurasia durante la sua calata verso Roma, poiché non si era piegata alle richieste cartaginesi. Lo stesso nome dei Taurini avrebbe un significato interessante: esso potrebbe derivare dalla radice indeuropea taur, affiancata da alcuni alla voce greca ορος (montagna) da altri al sanscrito sthur (robusto). Forse la collocazione della città dei Taurini nel cuore delle montagne Piemontesi potrebbe essere la ragione di questo nome così imperioso.I Salassi fondarono invece la città di Eporedia, intitolata alla divinità celtica Epona, madre dei cavalli. Dopo la conquista romana il nome si tramutò in Iporea, quindi divenuto l'attuale Ivrea. I Salassi veneravano anche il dio Penn, protettore dei pericoli delle montagne, le cui statue scavate nella roccia si possono ancora vedere in Piemonte e in Liguria (segno di come il dio fosse venerato anche a sud).
I Taurini, secondo Plinio, erano dediti alla selvicoltura, nonché alla coltivazione di alcune varietà di segale quale l'asia e l'aravicelii. Similmente ai liguri non praticavano le tipiche scorrerie celtiche, bensì si dimostrarono più propensi a conflitti in chiave difensiva. Nonostante ci sia giunto poco di loro, è probabile che fossero usi alla costruzione di fortezze come i cugini costieri. Sia Taurini che Salassi sono descritti come abili cavalieri, tanto che prestarono forze di cavalleria alle fazioni in guerra durante i conflitti punici. Era uso di queste genti, come i galli a nord, affiancare il cavaliere da un fante che correva appresso al cavallo tenendosi per la criniera. Una volta giunto in battaglia, il fante supportava il compagno a cavallo, cercando di ferire le zampe del destriero nemico.I Salassi sono considerati dai romani come un popolo più selvaggio e bellicoso dei Taurini, ma è probabile che siano semplici damnatio memoriae causate dall'inimicizia tra i due popoli.
La lingua Taurina non è giunta a noi, almeno non in forme originali, facendo tendere gli storici per un'idioma di origine ligure. Al contrario la lingua Salassa risulta molto interessante: sebbene parlassero una lingua di origine gallica, i legami con il dialetto leponzio e insubre hanno portato a modifiche rilevanti, ancora sopravvissute nel dialetto attuale. Termini quali Bletsé (mungere), Brèn (crusca) e Daille (pino silvestre), come molti altri, sono tutti riconducibili alla pre romanizzazione. Infine sono tanti i toponimi di derivazione celtica (questo come in tante altre aree del nord Italia): Dora (Dora Baltea), Bar, da cui Bard, e Bardonecchia (Borgo fortificato).
I Taurini, dopo all'alleanza con Roma, mantennere un proprio regno indipendente sotto la guida del Re Cozio fino a circa il I secolo a.c. per poi unirsi al dominio Romano con la fondazione di Iulia Taurinorum (Torino), nel 28 a.c. Gli attuali piemontesi, con le chiare influenze francesi e romane, sono diretti discendenti del popolo del Toro. Per i Salassi la conquista fu più drammatica: sconfitti in battaglia nel 143 a.c. resistettero per decenni alla penetrazione dei romani e degli alleati insubro/taurini, finché, con le campagne di Augusto e il rastrellamento operato da Messalla Corvino, vennero definitivamente sottomessi circa nel 25 a.c.
Ma di questa campagna militare così densa di eventi ne parleremo specificatamente in un altro articolo.
Fonti:Le Alpi nel mondo antico, Ralph E. Martin.Storia della Prima Italia, Massimo Pallottino.Preistoria e Storia delle Regioni D'Italia, Gianna G. ButiSulle tracce dei salassi. Origine, storia e genocidio di una cultura alpina. Massimo Centini.


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venerdì 24 agosto 2018

Domenica di sangue a Villa Corsini: Roma, 3 giugno 1849




Il fuoco che si era propagato attraverso l'Europa nel fatale 1848 sembrava ormai essere stato domato dalle forze reazionarie e conservatrici. Ma nell'Italia che si era sollevata per rivendicare maggiori diritti e la libertà dallo straniero, ancora due città restavano a farsi portabandiera delle aspirazioni liberali: Venezia e Roma. 
Dopo la fuga di quello che era sembrato in un primo momento un papa liberale, Pio IX, era stata proclamata la Repubblica Romana, un laboratorio di idee progressiste e liberali come il suffragio universale maschile, l'abolizione della pena di morte e la libertà di culto. Ma il pontefice non si era rassegnato alla perdita del potere temporale, e in seguito al suo appello, ben quattro forze di invasione erano calate sull'Italia centrale per ristabilire il dominio del papa: da nord un'armata austriaca, da sud i napoletani con gli spagnoli, mentre dal mare erano giunti i francesi del generale Oudinot.

In barba alla costituzione della repubblica francese, che prometteva di "non adoperare mai le sue forze contro la libertà d'alcun popolo", il corpo di spedizione transalpino marciò speditamente contro la Città Eterna, convinti dello stereotipo che "gli italiani non si battono". L'ottimismo francese però svanì quando il 30 aprile il primo assalto si infranse contro le porte di Roma, difese dei risoluti volontari pure addestrati sommariamente e armati assai peggio degli assalitori, considerati ancora i migliori soldati del mondo. Garibaldi, il poncho bianco e la spada sguainata, guidò un contrattacco alla baionetta talmente violento da mettere in rotta i francesi che lasciavano sul campo centinaia di morti e un numero superiore di prigionieri. Beffardo, il proclama della Commissione delle Barricate annunciò il giorno dopo «l'ingresso dei francesi in Roma cominciò ieri; entrarono per porta S. Pancrazio in qualità di prigionieri».

Consapevoli di non poter prendere la città con la facilità sperata, i francesi intavolarono trattative per stabilire una tregua, accettata senza esitazioni dal governo repubblicano che doveva anche occuparsi dei napoletani che avanzavano da sud. Nel corso del mese di maggio Garibaldi respinse le forze partenopee con le battaglie di Palestrina e Terracina, riuscendo a farle desistere dal muovere sull'Urbe. Intanto i francesi mascheravano con la diplomazia i loro preparativi: erano giunti tali rinforzi da far arrivare il contingente a 30.000 soldati dotati di un'imponente parco d'artiglieria. Secondo quanto concordato, le ostilità sarebbero riprese il mattino del 4 giugno. Tuttavia, alle 3 del mattino del 3 giugno, tradendo la parola data, le colonne francesi assaltarono le ville su cui si imperniava il sistema difensivo della città, scacciando i difensori sorpresi da Villa Pamphilj per poi attaccare anche Villa Corsini. Per i francesi il possesso del Gianicolo era fondamentale, in quanto avrebbe permesso di bombardare impunemente l'intera città. Proprio per impedire ciò, quel 3 giugno si scrisse una delle pagine più sanguinose del Risorgimento.

Per tutto il giorno si procedette fra attacchi e contrattacchi, con l'edificio preso, riperso, e poi preso di nuovo. I patrioti si slanciavano a piedi o a cavallo su per le scalinate della villa, incuranti del micidiale fuoco nemico che proveniva da ogni finestra, siepe, muretto e porta. Negli spazi angusti le armi da fuoco diventavano inutili e si scatenavano micidiali mischie in cui gli uomini si facevano a pezzi con coltelli, baionette, pietre, unghie e denti. Gli italiani scacciavano i francesi dalle barricate erette con i cadaveri per poi essere di nuovo respinti dalla ben piazzata artiglieria transalpina. Cadde Angelo Masina, comandante dei lancieri della morte, che ferito, si rigettò nella mischia. Venne mortalmente ferito Goffredo Mameli, circondato dai compagni che cantavano il suo Canto degli Italiani. Il sergente Manfrin dei bersaglieri, ferito gravemente, rispose al colonnello Manara che lo esortava a ritirarsi, con «Lasciatemi stare colonnello, almeno faccio numero» e cadde sotto al fuoco nemico. Caddero pure i varesini Francesco Daverio ed Enrico Dandolo. Il colonnello Manara scrisse «Vorrei ad uno ad uno potervi raccontare i fatti memorabili di quella giornata, in cui, giovinetti già con due o tre ferite nel corpo, vollero combattere ancora e morire gridando, viva la repubblica!; altri vedere rassegnati cadere il fratello, l'amico, e spingersi ancor più arditi contro il fuoco nemico».
«Gli italiani non si battono». «l'Italia è un'espressione geografica», «gli italiani non hanno coraggio». Parole cancellate dal sangue, 
«…la lunga lista rossa come un tappeto rosso che dalla Porta San Pancrazio giungeva fino alla porta dell’ambulanza della larghezza di circa un metro e ottanta centimetri. Questo tappeto era il sangue che colava dalle barelle che trasportavano i morti e i feriti…» (A. Ciabattini).

Seppure dal punto di vista militare i ripetuti assalti di piccole unità furono un errore costoso, in quanto in molti caddero per la mancata riconquista di una posizione indifendibile, dal punto di vista ideologico la giornata del 3 giugno fu un olocausto di sangue per la causa rivoluzionaria, una pagina drammatica che però rafforzò in tutti la volontà di combattere. Fu proprio il sacrificio di tanti giovani a rimuovere definitivamente le aspirazioni nazionali dal terreno dell'utopia e rafforzare in tutti gli italiani la coscienza di un diritto tante volte negato. Come scrisse Manara in una lettera pochi giorni prima di cadere anch'esso «Noi dobbiamo morire per chiudere con serietà il Quarantotto; affinché il nostro esempio sia efficace, dobbiamo morire».

I combattimenti proseguirono aspri per tutto il mese di luglio, coi francesi che bombardarono la città stessa per costringere i romani alla resa. Stretti da forze soverchianti, per evitare alla popolazione la battaglia in città e il saccheggio, le forze repubblicane decisero di arrendersi, ma solo dopo aver promulgato come ultimo atto la Costituzione. Dopo che Garibaldi fu uscito da Roma col celebre discorso in cui offriva soltanto «... fame, freddo, marce forzate, battaglie e morte» seguito da 4.000 volontari, i francesi entrarono in Roma fra i "chicchirichì" di scherno degli abitanti. Terminava così la Repubblica Romana, e dopo la caduta di Venezia, il primo, grande tentativo italiano di liberarsi dal giogo dello straniero e della tirannia.

Regogolo Boemetto

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