Ficca il naso

martedì 18 settembre 2018

Astuti e mortali: la setta degli Assassini



Pochi anni prima della Prima Crociata, nel 1090, il carismatico ed erudito Hassan-i Sabbah conquista il forte di Alamut, in Iran. Ci sono molte storie diverse su come il "vecchio della montagna" (da un'errore di traduzione del termine arabo shaykh, che significa sia capo che vecchio) abbia conquistato la fortezza usando il suo ingegno e senza spargere una goccia di sangue, ma ciò che importa è che per i successivi duecento anni il castello sarà la base operativa della sua setta. Sabbah decide di fondare il suo ordine quando l'erede dell'Impero fatimide, che egli sosteneva, venne ucciso. A questo punto si scatenò una guerra fratricida fra tra i due figli Nizār e al-Mustaʿlī per la successione, e i seguaci di Sabbah si allontanarono dagli altri seguaci della corrente Ismailita, derivante dall'Islam sciita, in quanto sostenevano Nizār, da cui prenderanno il nome di Nizariti.

Caratterizzati dall'assoluta obbedienza ai loro capi carismatici che hanno un rango semi-divino, i seguaci della setta vengono indottrinati e addestrati rigorosamente per compiere le audaci missioni che li renderanno famigerati in tutto il mondo. I ranghi più bassi della rigida scala gerarchica della setta era occupata da coloro che però erano addestrati con più cura, i cosiddetti Fida'in. Costoro erano giovani forti, agili e robusti, ma anche intelligenti, astuti e carismatici. Infatti la tattica degli Assassini prevedeva un accurato lavoro di pianificazione che poteva durare anche anni, durante i quali l'agente si infiltrava usando le sue abilità fino ad arrivare il più vicino possibile al bersaglio. Questo iter terminava con l'eliminazione della vittima, preferibilmente uccisa in un luogo pubblico per rendere il più spettacolare e intimidatorio possibile l'omicidio. Il fatto che in questo modo gli agenti accettassero serenamente di essere trucidati dalle vendicative guardie ha dato adito alla leggenda secondo la quale i seguaci del Vecchio della Montagna abusassero di hashish, somministrato loro dal maestro per indottrinarli. Da qui deriverebbe anche il loro nome Hashashini, dall'arabo al-Hashīshiyyūn, "coloro che si dedicano all'Hashish".

Ma questa teoria è poco credibile in quanto l'uso della droga allenta i sensi, rende difficile la concentrazione e compromette dunque la capacità di compiere le audaci ed elaborate imprese di questi agenti. Più probabilmente il loro nome deriva dal loro maestro e significherebbe dunque "seguaci di Hassan". Anche la leggenda secondo la quale gli adepti erano portati in un lussureggiante giardino che veniva presentato loro come il paradiso, al quale potevano avere accesso solo grazie al loro maestro (una storia riportata anche da Marco Polo), è stata confutata e non è più ritenuta credibile.
Ma nonostante la loro abilità e il loro valore, nel 1256 il condottiero mongolo Hulagu Khan catturò la rocca di Alamut e le altre fortezze con cui gli assassini controllavano la regione, sterminandone gli occupanti per vendicare il tentato assassinio di Möngke Khan. I superstiti della disfatta setta si recarono in Egitto dove offrirono i loro servigi ai Mamelucchi e anche in Ungheria, dove sopravvissero fino a quando la loro comunità non venne estirpata dall'Inquisizione.


Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?



Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.

lunedì 17 settembre 2018

I misteriosi figli del totem: i Piceni



Da sempre contraddistinti per la loro spiritualità occulta, fin dalla loro nascita leggendaria i piceni sono presentati come un popolo intrinsecamente legato alle potenze divine: i piceni non erano altro che sabini, genti che popolavano Lazio e Campania, riunitisi per quel mitico, a metà tra sacro e profano, ver sacrum. Questo viaggio, a cui partecipavano grandi masse di persone (quasi sempre giovani), si snodava per l'intera penisola centrale, alle ricerca del luogo idoneo per fondare un nuovo dominio.
Quando sul vessillo del capo guerriero si pose un picchio, all'altezza dell'attuale città di Ascoli, i futuri piceni compresero che gli dei avevano deciso che quello sarebbe stato il luogo in cui loro avrebbero dovuto stabilirsi.

Da un punto di vista storiografico si ritiene che i Piceni facciano parte del grande calderone degli Osco-Umbri, giunti in Italia nel II millennio avanti cristo. Le popolazioni osco umbre popolarono l'Italia dalla Calabria (dove vivevano i temuti Bruzi) fino appunto alla Picenia. Si ipotizza che i Piceni partirono da Tiora Matiena, luogo in cui vi era un oracolo dove un picchio profetava ai mortali, per poi risalire la Valle del Tronto, ponendo Ascoli quale loro capitale e Cupra come santuario. Un'altra teoria invece si lega agli Illiri, i quali potrebbero essersi mescolati o avere influenzato le popolazioni Osco Umbre della costa, sebbene non conosciamo iconografiche legate al Picchio in uso nella zona balcanica. Sembra infine farsi strada anche la teoria di un popolo autoctono, entrato in contatto successivamente con gli osco umbri.

Ma se queste sono domande a cui è difficile dare una risposta, ciò che vediamo di certo è che i Piceni avevano una propria lingua, erano estremamente avanzati (come dimostrano i tantissimi reperti archeologici), ma soprattutto avevano un legame con il sacro unico tra le popolazioni italiche. Per i Piceni sembra non esistesse una separazione tra ciò che era divino e ciò che fosse profano. Solo negli ultimi anni della loro storia iniziano a esservi influenze estranee che li portano ad avvicinarsi alla sacralità pragmatica romano etrusca.

Una figura femminile, affiancata a quella del picchio, è il fulcro della religiosità picentina. La dea Cupra, di cui il santuario è l'unico a essere stato ritrovato oltre ad alcuni depositi votivi e al tempio successivo di Diomede, sembra essere il centro di un culto di origini antichissime, forse legato alla dea pre indoeuropea matriarcale conosciuta quale Potnia. Altro essere divino era il signore degli animali, un'entità selvaggia ritratta in numerose offerte di bronzo e nei corredi tombali dei guerrieri. Il livello artistico dei piceni è stupefacente: opere d'arte quali il guerriero di Capestrano e i guerrieri del totem del lupo denotano non solo uno sviluppo tecnologico non indifferente, ma anche la ricchezza del popolo, che oltre alla pastorizia si dedicava al commercio sull'adriatico. Gli etruschi e gli umbri erano anch'essi importanti partner commericali.
Totem animali, quale lupo e picchio, sono altre caratteristiche peculiari dei Piceni, di cui resti artistici ci descrivono danze sacre, antichi rituali profetici, processioni misteriose verso località perdute tra i monti.
Si ipotizza che le sacerdotesse e i sacerdoti avessero un ruolo quasi predominante nella società picena: la lettura del futuro e l'interessere di sortilegi avevano la medesima importanza delle decisioni di un capo militare.
Probabile quindi che le donne picene (in particolare le sacerdotesse) fossero figure rispettate, depositarie di un'antica sapienza che gli uomini non potevano comprendere.

I Piceni popolarono il territorio che andava dal fiume Foglia all'Aterno dal IX al III secolo a.c. Pressati dai Galli a nord, i Piceni si allearono ai romani.
Nel 290 a.c., dopo la vittoria di Sentino sui Sanniti, la potenza romana lambì i confini del territorio dei Piceni, i quali aiutarono i guerrieri dell'Urbe a sconfiggere i Galli Senoni. Appare così un indizio della potenza militare Picena: non erano stati travolti dai celti, avevano resistito alle incursioni etrusche, addirittura permettevano ai romani di vincere i temibili guerrieri nordici. Eppure ormai il loro destino era segnato: i domini romani li circondavano completamente e, sentendosi minacciati, i piceni reagirono.
Fu un guerra lunga (ne parleremo approfonditamente in un articolo) che si concluse infine con la vittoria romana, così importante da portare al conio di una moneta d'argento celebrativa. Iniziò da quel momento una storia sanguinosa di rivolte, alleanze e tradimenti. Molti piceni vennero deportati nelle zone di Salerno, gli altri vennero lentamente romanizzati.
Guerrieri piceni combatterono a fianco dei romani sul lago Trasimeno, subirono il saccheggio da parte di Annibale ma rimasero fedeli a Roma, videro i propri figli più giovani morire a Canne. Con la guerra sociale del II secolo a.c., i piceni sconfissero, insieme ai loro alleati, i romani presso Falerone (90 a.c.), ma vennero poi sconfitti (per un soffio) mentre cingevano d'assedio la città di Fermo. Il condottiero dei Piceni, Vidacilio, tentò di proteggere alllora la capitale Ascoli dalle forze romane, ma, nonostante avesse messo in fuga i legionari, trovò il popolo ormai incerto e lontano dalle tradizioni che un tempo animavano il popolo picentino. Amareggiato, compì l'estremo di atto di suicidarsi.

Ascoli Piceno infine cadde e la sua caduta segnò la scomparsa del culto della dea Cupra, già in decadenza.
I Piceni divennero parte della tribù Fabia e il loro territorio fu ripartito tra la regio V e la regio VI, riunificato infine con Diocleziano nel Flaminia et Picenum. Giove vinceva così la meno guerresca dea Cupra, di cui tra i nuovi cittadini romani se ne perse il ricordo. Eppure, per coloro che ancora adesso ascendono fino agli impervi santuari del popolo del Picchio, le antiche pietre sembrano ancora riecheggiare dei rituali millenari e, forse, voci femminili sussurrano tuttora i segreti di una terra magica.

Fonti
I Piceni, storia e archeologia delle Marche in epoca preromana, di A. Naso.
La civilità della Dea, Marika Gimbutas.
Storia della Prima Italia, Massimo Pallottino.
Preistoria e Storia delle Regioni D'Italia, Gianna G. Buti

Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?



Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.

sabato 15 settembre 2018

Samurai! Saburo Sakai, leggendario asso nipponico (1916-2000)



La famiglia nella quale Saburo nacque nel 1916 era appartenuta un tempo alla casta militare dei samurai, ma era stata poi costretta a darsi all'agricoltura in seguito all'haihan-chiken. Rimasto orfano a 11 anni e ottenuti scarsi successi negli studi, a 16 anni si arruolò nella Marina imperiale giapponese, un ambiente dove vigeva una disciplina durissima e in cui le reclute venivano violentemente percosse per ogni minima effrazione o errore. Grazie alla sua educazione che era stata incentrata sul rispetto delle norme del Bushido e dell'Hagakure, Saburo riuscì non solo a superare il massacrante addestramento, ma si guadagnò il grado di sergente di marina prima di fare richiesta per entrare in una scuola per piloti. Come premio per la sua abilità che lo aveva reso il miglior allievo del corso, ricevette un orologio d'argento dall'Imperatore in persona, prima di venire trasferito in suolo cinese, dove c'è un disperato bisogno di piloti. Qui, pilotando un Mitsubishi A5M abbatte la sua prima preda, un Polikarpov I-16. Quando il suo aeroporto venne bombardato da 12 veicoli cinesi, il già ferito Sakai balzò sul primo aereo ancora utile, inseguì gli assalitori e ne abbatté uno prima di tornare indietro per la mancanza di carburante e tentare un atterraggio di emergenza a causa delle ferite.

Trasferito nella base di Hankow, venne selezionato per pilotare il leggendario Mitsubishi A6M "Zero", con il quale prende parte, il 7 dicembre 1941, all'attacco su Clark, base statunitense nelle Filippine che viene rasa al suolo. Nel corso di quella che all'epoca fu un'incursione da record per la distanza percorsa, Saburo abbatté un bombardiere B-17, primo abbattimento da parte di forze giapponesi di questo tipo di aeroplano. Trasferito in Borneo, mise in evidenza due delle sue caratteristiche più tipiche: la grandissima abilità e l'atteggiamento ribelle. Nei cieli sopra Surabaya infatti 23 Zero affrontarono una cinquantina di caccia olandesi, abbattendo una quarantina di nemici in cambio di tre sole perdite (anche se i numeri sono incerti).
La sua attitudine critica verso gli arroganti ufficiali superiori e la tipica mentalità giapponese lo portarono a disobbedire all'ordine di abbattere qualsiasi veicolo nemico, quando risparmiò un Douglas DC-3 carico di civili, e a compiere gesti provocatori come lo spettacolo acrobatico che Sakai e gli assi Hiroyoshi Nishizawa e Oshio Ota (con i quali formava il famoso "Cleanup Trio") offrirono ai piloti alleati di Port Moresby.

Trasferito nella base di Lae, in Nuova Guinea, si guadagnò il rispetto degli equipaggi di terra e d'aria (perse pochissimi gregari durante la guerra) con la sua abilità ma anche con il suo carattere così diverso da quello degli arroganti e violenti ufficiali cui erano abituate le truppe. Ma durante i ferocissimi scontri sopra Guadalcanal, l'8 agosto, Sakai venne colpito in testa da un colpo di mitragliatrice. Il proiettile passò attraverso il cranio del pilota, accecandolo da un occhio e paralizzando il lato sinistro del suo corpo. In queste condizioni terrificanti riuscì a percorrere in 4 ore e mezza i 1.000 km che lo separavano dalla base di Rabaul, dove rifiutò qualsiasi cura medica prima di aver fatto rapporto. Un'operazione senza anestesia gli permise di usare di nuovo la parte sinistra del corpo ma nulla poté essere fatto per salvare il suo occhio destro. Dopo 6 mesi di riabilitazione, il pilota ormai orbo trascorse un anno ad addestrare nuovi piloti, vedendosi rifiutato il permesso di tornare a combattere fino all'aprile del 1944.

Tornato nella mischia, Sakai ingaggiò gli statunitensi in una serie di scontri sopra Iwo Jima, dimostrando la sua esperienza e abilità quando riuscì a sfuggire a quattro moderni Hellcats senza venire mai colpito una sola volta. La sua indole ribelle emerse ancora una volta, quando si rifiutò di portare a morte certa i suoi uomini, a cui era stato ordinato di portare a compimento un attacco kamikaze, portandoli invece in salvo a Iwo Jima. Nonostante la sua grave menomazione, riuscì ad abbattere altri 4 veicoli nemici, portando le sue vittorie alla cifra di 64, che gli valsero la promozione ad ufficiale, un onore concesso molto raramente nell'esercito imperiale. L'alfiere Saburo Sakai venne scelto insieme ad altri per pilotare una forza equipaggiata con i moderni e ottimi Kawanishi N1K Shinden, ma ormai era troppo tardi. Dopo il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, lui e altri nove compagni contravvennero agli ordini per combattere un ultimo scontro, per poi dover accettare anch'essi la sconfitta del Giappone.

Promosso a sotto-tenente, dopo la guerra divenne un buddista devoto, vegetariano e pacifista, tanto che giurò di non uccidere mai più un essere vivente, nemmeno una mosca.
La sua vita post-bellica inizialmente venne segnata dalla povertà e dal dolore per la morte prematura della moglie, ma nel 1952 aprì una piccola tipografia e inviò la figlia a studiare in America. Criticò aspramente il governo giapponese e le scelte ottuse e arroganti che avevano provocato la morte di centinaia di migliaia di persone, oltre a denunciare come i suoi superiori lo discriminassero e maltrattassero, nonostante le sue imprese eroiche. In seguitò visitò gli Stati Uniti dove incontrò molti dei suoi antichi avversari, con i quali intrattenne rapporti improntati al rispetto e alla stima reciproca. Il pilota che si era distinto non solo per abilità, resilienza e amore per la propria patria, ma anche per galanteria e rispetto per la vita umana morì il 22 settembre 2000 durante un incontro fra veterani nella base navale di Atsugi, a causa di un attacco cardiaco.


Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?



Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.

Sangue nei Balcani: la battaglia di Durazzo, 18 ottobre 1081



Dopo aver conquistato la Sicilia araba e il sud Italia bizantino, Roberto il Guiscardo non prese bene la deposizione dell'imperatore Michele VII Dukas. Infatti Costantino, il figlio del monarca, aveva preso in sposa la figlia del duca di Apulia e Calabria, Elena, che ora vedeva svanire la sua possibilità di sedere sul trono di Costantinopoli come imperatrice. Col pretesto di supportare le pretese di Costantino contro l'usurpatore Alessio I Comneno, Roberto trasportò con 150 navi i suoi 15.000 uomini in Illiria, con l'obbiettivo di catturarne la capitale Durazzo. Ma la città era ben difesa e non temeva l'assedio, tanto più che il doge Domenico Selvo accettò la richiesta di aiuto in cambio di concessioni commerciali offerte da Alessio. Gli esperti marinai veneziani sorpresero la flotta di Roberto e le inflissero una sonora sconfitta a colpi di fuoco greco e abbordaggi. Nonostante ciò il Guiscardo non si scoraggiò e cominciò l'assedio della città, difesa dall'esperto Giorgio Paleologo. Per tutta l'estate i normanni bombardarono la città con baliste e catapulte, mentre i difensori compivano improvvise sortite per distruggere le macchine e le scorte degli assalitori. Oltre alla distruzione delle loro macchine (prima fra tutte la preziosa torre d'assedio), i normanni dovettero subire un'epidemia che decimò i loro ranghi.

Ma l'imperatore Alessio non era lontano: ben presto il suo variegato esercito composto da tagmata traci e macedoni, unità d'élite excubita e vestiaritae, manichei, cavalleria tessala, coscritti dei Balcani, fanteria armena, ausiliari turchi, mercenari franchi e la temibile guardia Variaga. Quest'ultimo corpo d'élite all'epoca era formata principalmente da anglo-sassoni, scacciati dalle isole britanniche dopo la conquista normanna. A questi nerboruti giganti ascia-muniti si presentava finalmente l'occasione di regolare i conti con gli intraprendenti uomini del nord. Alessio, contro al parere dei suoi generali, volle immediatamente attaccare Roberto, che informato dei suoi movimenti, abbandonò l'assedio e si preparò allo scontro campale. Entrambi i comandanti divisero il proprio esercito in tre divisioni, avanzando cautamente contro il nemico. I variaghi costituivano l'avanguardia bizantina, un muro di asce e scudi dietro cui si riparavano gli arcieri che scoccavano e tornavano a ripararsi dietro i mercenari nordici. Roberto lanciò dei cavalieri per provocare i variaghi e distoglierli dalle loro posizioni, ma i normanni furono fermati dalla pioggia di frecce che li ricacciò indietro. D'improvviso la destra normanna guidata da Amico di Giovinazzo si lanciò contro il centro e il lato sinistro bizantino, che però resse all'urto, e addirittura mise in rotta gli attaccanti. Dimentichi del pericolo cui si sarebbero esposti, i variaghi allora partirono all'inseguimento degli sconfitti che fuggivano verso il mare.

A questo punto comparve Sichelgaita, sposa longobarda del Guiscardo, che indossate armi e armature rianimò gli inseguiti con la sua determinazione e il suo coraggio che la rendevano "una seconda Atena". I variaghi che avevano messo in fuga i cavalieri normanni con le loro grandi asce a due mani erano ora esausti e separati dal resto dell'esercito, facile prede per i balestrieri e i lancieri di Roberto. I sassoni superstiti allora cercarono rifugio nella vicina chiesa dell'Arcangelo Michele, forse sperando nella protezione dell'Onnipotente, che però non poté impedire ai normanni di dare l'edificio alle fiamme, fra le quali perirono orribilmente tutti i variaghi. Nemmeno una sortita del coraggioso Giorgio Paleologo poté ribaltare le sorti della giornata, che fu decisa quando i cavalieri normanni caricarono il centro bizantino usando il nuovo modo di caricare, con la lancia in resta per infliggere il massimo danno al nemico. Vedendo l'ago della bilancia pendere dalla parte dei normanni, gli alleati serbi e turchi di Alessio si persero d'animo e decisero di abbandonare la lotta, lasciando l'imperatore al suo destino. Alessio stesso rischiò di essere ucciso più volte e venne salvato dalla mano di Dio secondo i cronisti, dalla sua ottima armatura secondo i pragmatici.

Anche se il Guiscardo fu richiamato in Italia dalle rivolte scoppiate in sua assenza e dalle richieste di aiuto del papa, i bizantini dovettero subire altre due sconfitte ad Arta e Giannina prima di poter espellere gli invasori nel 1083 e riconquistare così a caro prezzo i Balcani. I veri vincitori furono probabilmente i veneziani, che si guadagnarono la stima dell'imperatore, oltre che una colonia commerciale a Costantinopoli e diverse esenzioni fiscali.

Art by Giuseppe Rava

Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?



Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.


Da eroe delle SS ad assassino per il Mossad: Otto Skorzeny e l'Operazione Damocle



Negli anni Sessanta il presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser stava sviluppando un programma missilistico per minacciare direttamente Israele. Non potendo fare affidamento sui sovietici o sugli americani per accedere a tale tecnologica, si era rivolto all'Europa, assoldando un buon numero di scienziati tedeschi che in passato avevano sviluppato armi per il regime nazista di Hitler. Secondo le loro fonti, gli israeliani scoprirono che nella misteriosa "fabbrica 333", gli egiziani stavano costruendo oltre 900 razzi, oltre a stare sviluppando sostanze chimiche, biologiche e le testate a combustione di gas per queste armi. Per scoraggiare gli scienziati tedeschi il Mossad era ricorso a minacce telefoniche e l'invio di alcune lettere bomba, ma con scarso successo. Non potendo permettere che una tale minaccia si concretizzasse, Israele diede via all'Operazione Damocle, un'azione su larga scala che prevedeva il ricorso a qualsiasi mezzo pur di salvaguardare la sicurezza dello stato ebraico. Anche fare un patto col diavolo.

Otto Skorzeny, il viso sfigurato dall'iconica cicatrice, era stato una delle SS preferite di Hitler, considerato "l'uomo più temuto d'Europa" che aveva liberato Mussolini dal Gran Sasso e aveva portato a termine altri audaci missioni come commando e infiltrato. Processato per crimini di guerra, era stato assolto anche grazie alla testimonianza a suo favore di un ufficiale inglese, che aveva dimostrato quanto anche il nemico lo rispettasse. Dopo la liberazione aveva visitato vari paesi, fino a stabilirsi in Spagna. Proprio in un bar altolocato di Madrid, nel 1962, lui e sua moglie furono avvicinati da una sofisticata coppia tedesca che, a loro dire, era stata rapinata e aveva perso i documenti. I quattro iniziarono a bere e chiacchierare amabilmente, fino a quando l'ex SS invitò i due a casa sua. Ma nel suo salotto, senza alcun preavviso, Skorzeny puntò una pistola contro gli ospiti.
«Ho capito chi siete, agenti del Mossad, e volete uccidermi!». In tutta calma i due rivelarono le loro identità ma affermarono che «...se avessimo voluto ucciderti saresti già morto. Vogliamo farti un'offerta».

C'era una sola cosa che l'austriaco desiderava e che il Mossad poteva dargli: l'essere cancellato dalla lista nera di Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti. Fu questo il premio che gli venne promesso se avesse aiutato i suoi antichi nemici a sabotare i piani degli egiziani. Giunto in Israele ricevette istruzioni da Isser Harel, la mente che aveva organizzato il rapimento del nazista Adolf Eichmann, e si recò in Egitto, dove acquisì molte informazioni sugli scienziati al soldo di Nasser grazie alle sue connessioni. In un caso, fu lui stesso a inviare il pacco bomba alla fabbrica di Heliopolis che uccise cinque operai egiziani che lavoravano per gli ex-nazisti. Ma il suo contributo più grande alla sicurezza di Israele non lo diede in Medio Oriente o in Africa, ma a Monaco. Nella città bavarese risiedeva Heinz Krug, ex-scienziato che aveva contribuito alla costruzione dei missili V-1 e V-2 e capo di una società di che forniva attrezzature militari all'Egitto.

Ormai era chiaro che il Mossad era sulle traccie di chi collaborava con Nasser, e il 49enne aveva già ricevuto diverse telefonate nel cuore della notte che lo minacciavano di morte nel caso in cui non avesse smesso di collaborare con gli egiziani. Temendo per la propria vita, Krug si era rivolto a un vero eroe del Reich, il tenente colonnello Otto Skorzeny, da poco entrato in contatto con lui. Quando salì in macchina con la sua nuova bodyguard, gli venne spiegato che i tre uomini nella macchina dietro di loro erano guardie del corpo fidate, mentre in realtà erano agenti del Mossad, fra i quali vi era anche il futuro premier Yitzhak Shamir. I due ex-nazisti si recarono in un bosco, dove avrebbero dovuto discutere sul da farsi, ma invece Skorzeny estrasse la pistola e freddò l'allibito Krug.

L'Operazione Damocle attirò molte critiche su Israele e dovette essere sospesa per non incrinare i rapporti con la Germania, ma funzionò: molti scienziati tedeschi lasciarono il paese e Nasser dovette rivolgersi ai sovietici per continuare la sua corsa agli armamenti. Ma nonostante il grande contributo dato, Simon Wiesenthal si rifiutò categoricamente di rimuovere dalla sua lista l'ex-SS. Alla fine il Mossad fabbricò una finta lettera del cacciatore di nazisti in cui dichiarava che Skorzeny non era più un nemico di Israele. Nonostante questo, forse il Mossad sarebbe tornato per la sua testa, se l'austriaco non fosse morto di cancro nel 1975 a Madrid, ma almeno poté trascorrere gli ultimi anni in relativa tranquillità.

Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?



Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.

Un vecchio conto in sospeso: Marignano, 1515


Del fiero ducato di Milano era rimasta una pallida ombra.
Massimiliano Sforza veniva sfruttato come un burattino dai Cantoni Svizzeri, che dopo le tante vittorie nel corso degli anni si erano trasformati in una potenza regionale. I Francesi avevano ridotto gli stati italiani all'impotenza dopo le continue invasioni, anche l'astro di Venezia si era affievolito. Per l'Italia si stava per aprire un periodo di continue dominazioni straniere: sembrava che per primi toccasse agli svizzeri, adesso signori della Valtravaglia, Valcuvia e della Val D'Ossola (in mano ai Vallesi).

Eppure l'Italia non si sarebbe piegata né ai francesi né tantomeno agli svizzeri, ma avrebbe presto il suo posto nel sogno imperiale di Carlo V. Tuttavia in quel momento la Francia risultava essere l'unico alleato contro la Svizzera: Francesco I aveva attraversato le Alpi con 50.000 uomini e 70 cannoni, deciso a prendere il controllo del ricco Ducato. Colti di sorpresa, gli svizzeri abbandonarono i Colli del Monginevro e ripararono a Milano, dove la popolazione era stremata dal malgoverno di Massimiliano e dalle ruberie degli elvetici. A Gallarate si venne alla stipula di un accordo: i francesi offrivano concessioni agli svizzeri, ma in realtà negoziavano con il Papa alle spalle dei confederati. Dopo la firma del trattato, il Canton Berna, Friburgo, Vallese e Soletta, si ritirarono con 10 000 dei propri soldati, indebolendo le forze del Ducato di Milano.

L'esercito Svizzero agì comunque con grande coraggio.
Invece di attendere all'interno delle vecchie mura Milanesi, incapaci di reggere a un bombardamento, e soprattutto per il timore di un insurrezione dei cittadini, i confederati marciarono contro i francesi, intercettandoli nei pressi del villaggio di Zivido, sulle sponde al Lambro. L'armata francese era imponente: 2.500 gendarmi pesanti a cavallo, 1.500 cavalleggeri italiani, 10.000 fanti mercenari francesi, italiani, guasconi, baschi, 9.000 lanzichenecchi, tra cui i temibili veterani dell'armata nera. Questa forza (circa 6000) era chiamata così perché indossavano livree nere, molti simili a quelle bande nere italiane che sarebbero nate 2 anni dopo nelle guerre dD'Urbino. Questi guerrieri sarebbero stati poi tacciati come traditori, perché continueranno a combattere per la Francia contro i loro compratrioti che invece si schierarono per l'Impero.
Infine svariate migliaia di mercenari italiani: anch'essi indossavano livree nere, decisi a vendicare i tantissimi affronti ricevuti dagli svizzeri (come a Morat).
L'armata confederata era formata da 20,000 veterani, i più temuti combattenti sul campo, affiancati da circa 5000 soldati milanesi, ben poco propensi a combattere con i loro dominatori.

I Francesi non si dimostrarono all'altezza della situazione: prima che sorgesse il sole il campo francese venne assalito dagli svizzeri, i quali rubarono molti pezzi di artiglieria e ferirono lo stesso re Francesco I.
I Lanzichenecchi (come accadrà in tanti altri scontri) non ressero il confronto con i picchieri svizzeri: i loro ranghi vennero sfondati, portandosi dietro nella fuga anche i guasconi, i francesi e i baschi. Solo i mercenari italiani tennero duro.
Essi potevano sfruttare le ottime armature pesanti e la superiorità di fuoco donata dagli archibugi per rallentare l'avanzata svizzera.
Fu Gaspard I De Coligny, poi nominato Maresciallo di Francia, a rinserrare i ranghi dell'armata reale, che per un soffio non venne annientata.
Alle quattro del mattino gli svizzeri si accamparono, non essendo riusciti a rompere lo schieramento francese.
Le perdite di questi erano state tantissime (circa 6000 soldati) e la giornata successiva pareva essere in mano agli svizzeri.

Ma la mattina dopo, dalle alture vicine allo scontro, garrì il Leone di San Marco. 12.000 veneziani, al comando di Bartolomeo D'Alviano, si gettarono contro le forze degli odiati svizzeri. Circondati dalle due armate, i confederati tennero duro prima di essere massacrati senza pietà: gli italiani furono spietati, immergendo le lame nei guerrieri elvetici al ricordo dei morti di Morat. Tra gli svizzeri le perdite furono altissime, solo metà dei picchieri riuscì a tornare a casa (circa 10.000 morti).

Marignano rappresentò la fine dell'espansione svizzera: da quel giorno i confederati non si arrischiarono più in offensive extraterritoriali.
La loro influenza sul Ducato di Milano era finita e i loro balliaggi delle valli vennero restituiti ai nuovi dominatori (non prima di aver distrutto e saccheggiato il territorio, facendo scempio di tantissime opere d'arte e castelli, in particolare in Valcuvia).
Ma la guerra era ben lungi dall'essere giunta a una conclusione.
La Francia si ergeva quale nuova vincitrice, anche grazie all'alleanza con la repubblica Veneta, eppure all'orizzonte si addensavano nuvole nere.

E dietro di essere baluginava l'aquila imperiale...

Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?



Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.

lunedì 10 settembre 2018

La furia della vecchia confederazione: Morat, 1476




20.000 mercenari circondavano Morat, roccaforte fedele ai cantoni sita sul lago omonimo. Il Duca Carlo I, furibondo per l'ignominosa sconfitta di Grandson (1476), desiderava una rivincita. Ai suoi ordini c'erano arcieri inglesi, picchieri fiamminghi, armigeri italiani (5000) e la sua abilissima cavalleria pesante, l'unica che era riuscita a mettere in difficoltà gli svizzeri nelle precedenti battaglie. Non c'era invece la sua costosa artiglieria, caduta nelle mani degli svizzeri, sebbene fosse riuscito ad acquistarne altri pezzi per rinforzare le palizzate del suo campo.
Non mancavano neppure i Savoiardi del conte Romont, in gran parte cavalleggeri, che si posizionarono a nord per intercettare i rinforzi degli svizzeri.

Il Temerario schierò le truppe per accogliere i nemici, che riteneva sarebbero giunti dalla direttiva del ruscello di Burggraben. Al centro fece costruire un'imponente opera di trinceramenti e palizzate, dove si posizionò la maggior parte della fanteria non impegnata nell'assedio. Alla destra si schierarono i gendarmi, che con le loro spade, azze e alabarde avrebbero dovuto aprirsi un varco nel porcospino svizzero. L'artiglieria era a sinistra, situata su un avvallamento scosceso che permetteva di bombardare senza ostacoli le truppe confederate. Sembrava un piano perfetto, ma il destino non arrise ai borgognoni.

Mentre in città si combatteva lungo le brecce, le forze del Temerario ricevettero più volte notizia dell'imminente arrivo dei confederati, dunque non mollarono mai i loro posti dietro le palizzate, sempre sul chi vive. All'alba del 22 giugno sembrava che la battaglia stesse per iniziare, le voci dell'arrivo dei ribelli si rincorrevano per il campo. Ma i militi del Duca rimasero per ore sotto la pioggia senza vedere alcun avversario, tanto che Carlo fece smontare i cavalieri e distribuì il pasto di mezzogiorno. Era pure giorno di paga per i mercenari. Rimasero alla palizzata solo 3000 uomini, stretti nei mantelli e sferzati dalla pioggia
Fu in quel momento che gli svizzeri calarono sul nemico.

L'avanguardia, 6000 fanti e 1200 cavalieri, emerse dalla foresta di Birchenwald, nel punto esatto predetta dal duca. Insieme a loro marciava il blocco principale dell'esercito confederato: 10.000 picchieri disposti a cuneo, protetti ai fianchi da alabardieri da un ulteriore anello di picchieri in armatura pesante. Una retroguardia di 6000 miliziani chiudeva la colonna svizzera, che non mancava di archibugieri e schioppettieri. Gli svizzeri caricarono a testa bassa la palizzata, i cui difensori combatterono come diavoli per dare tempo ai compagni di organizzarsi.
L'artiglieria riuscì a sparare poche salve, ma inflisse un grave scotto ai confederati, stretti in quella falange. Non appena un gruppo di picchieri trovò un sentiero sinistro senza protezione, la palizzata venne travolta del tutto. I difensori vennero trucidati e l'armata svizzera calò sul campo, avvinto dalla confusione. Carlo galoppò in mezzo ai suoi uomini nel tentativo di riunirli, ma gli attacchi dei mercenari si infrangevano contro l'inesorabile muro di picche. Sebbene i cavalieri pesanti riuscirono a mettere in rotta i soldati di Lorena, la battaglia era ormai perduta.

Carlo Il Temerario dovette dare con cuore grave l'ordine di ritirata, che si trasformò in una rotta. Gli svizzeri erano furibondi per l'affronto di Grandson, dove 400 connazionali erano stati impiccati senza pietà, dunque sfogarono la propria rabbia contro i mercenari in fuga.
Morirono quasi 10.000 uomini, non vennero risparmiati neppure i seguiti di donne e civili che erano soliti seguire gli eserciti dell'epoca. Mentre i Savoiardi riuscirono a fuggire insieme ai cavalieri grazie ai loro destrieri e alla posizione defilata, per gli italiani fu un eccidio.
Essi avevano combattuto sulle sponde del lago sia contro i confederati che contro i difensori della città riunitisi in una sortita. Tennero duro per l'intera giornata, infliggendo grandi perdite ai nemici, ma alla fine dovettero cedere. Non ci fu pietà per quei mercenari, stretti tra lago e picche nemiche, che vennero praticamente sterminati.
Fu un evento terribile per il mercenariato italiano, tale da rimanere nelle coscienze dei peninsulari fino alla battaglia di Marignano (1513), dove le armate "nere" italiane riservarono lo stesso trattamento ai mercenari confederati.

Il duca Carlo era invece riuscito a sopravvivere ancora una volta alla disfatta, ma la sua reputazione era in pezzi. Il suo istinto guerriero non si era ancora placato e, in un ultimo tentativo di riconquistare il suo onore, sarebbe morto in battaglia.


Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?



Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.

sabato 8 settembre 2018

Avanti, Tridentina! La battaglia di Nikolajewka, 26 gennaio 1943


Con l'offensiva Ostrogožsk-Rossoš', la terza grande spinta per intrappolare le forze dell'Asse e distruggerle, i russi danno inizio a quella che noi conosciamo come Seconda battaglia difensiva del Don, mentre le Divisioni di Fanteria italiane, battute, iniziano quella marcia di ripiegamento da incubo in cui i morti e i congelati si conteranno a migliaia.
Il Corpo d'armata alpino, ultimo corpo ancora efficiente dell'8ª Armata italiana in Russia, riceve l'ordine di resistere sulle proprie posizioni per non essere accerchiato. Ma dopo aver sfondato le linee tedesche a sud e quelle ungheresi a nord, i russi possono intrappolare gli italiani, il cui fronte centrale non è caduto. Per non essere annientate, le nostre formazioni, cui si aggregano migliaia di rumeni, ungheresi e tedeschi, iniziano la durissima marcia per rientrare entro le linee amiche. Oltre al gelo, alla mancanza di mezzi, vestiti, cibo, medicine e armi, i soldati italiani devono subire i frequenti e improvvisi attacchi russi, oltre a dover pagare altissimi tributi di sangue per forzare i blocchi sovietici.

Dopo 15 drammatici giorni e 200 km punteggiati da perdite e sacrifici, la mattina del 26 gennaio le colonne in ritirata giungono davanti a Nikolajewka, un piccolo villaggio eretto su una modesta collinetta. Circa tre battaglioni russi supportati dai partigiani si sono arroccati fra le isbe, sfruttando il terrapieno della ferrovia, trincee e muri per trasformare il villaggio in una piccola fortezza. Per aprire la strada ai 40.000 uomini semi-congelati e quasi disarmati, bisogna affidarsi agli unici ancora in grado di affrontare uno scontro tanto duro: gli alpini della divisone Tridentina. Potendo contare sul supporto di fuoco del gruppo artiglieria Bergamo e di tre semoventi tedeschi, gli alpini a colpi di fucili e bombe a mano riescono a snidare i tenaci difensori dalla prima linea di difesa. Viene raggiunta la scarpata della ferrovia e i mitraglieri possono appostarsi nelle isbe appena sottratte al nemico. La reazione russa è violentissima: per tutta la mattina si procede ad assalti e contrassalti, con feroci scontri ravvicinati con bombe, fucili e pugnali casa per casa.

Inchiodati dal fuoco intensissimo dei sovietici, supportati dagli aerei che mitragliano a bassa quota, dalle mitragliatrici appostate che fanno strage e da un maggior numero di armi pesanti, nonostante i rinforzi che giungono verso mezzogiorno, gli alpini disperano di poter conquistare Nikolajewka, tanto che gli ufficiali si lanciano alla testa dei reparti per catturare il villaggio prima che il calar del sole sancisca una notte all'addiaccio e alla mercé del nemico. Il Capo di Stato Maggiore del Corpo d'Armata Alpino Giulio Martinat, vedendo gli alpini del suo battaglione Edolo andare all'assalto, dichiara «Ho cominciato con l'"Edolo", voglio finire con l'"Edolo"» per poi cedere al suo istinto di soldato, imbracciare un fucile e lanciarsi all'attacco coi suoi, incitandoli con le parole «Avanti alpini, avanti di là c'è l'Italia, avanti!» prima di venire mortalmente colpito.

Quando ormai la speranza sta per cedere il passo alla disperazione, il generale Luigi Reverberi balza su l'ultimo carro armato utile e con la pistola in pugno lancia il mezzo contro le linee nemiche al grido di «Avanti, Tridentina!». Il gesto e il grido elettrizzano sia i combattenti che la massa di sbandati, che incuranti del pericolo si lanciano come una valanga umana contro gli atterriti russi, che fuggono lasciando le armi e i morti dietro di sé. Con la via finalmente aperta, la strada per Shebekino, il luogo dove finirà la tremenda marcia, è aperta. Ma a che costo?
Sulla neve di Nikolajewka rimangono 3.000 penne nere e 39 ufficiali, un altissimo tributo pagato per permettere alle colonne di commilitoni di trovare la salvezza e un possibile ritorno a casa.

Citando il canto Sul ponte di Perati:

Gli Alpini fan la storia,
la storia vera:
l'han scritta con il sangue
e la penna nera.

Artwork di Giuseppe Rava

Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?



Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.

giovedì 6 settembre 2018

Una confederazione di guerrieri: Grandson, 1476



412 uomini pendevano lividi dagli alberi.
La guarnigione di Grandson si era arresa al Duca di Borgogna Carlo il Temerario, ma il francese non aveva rispettato il patto. Così per quattro ore i soldati e il loro seguito dovettero osservare i propri compagni venire impiccati, in attesa del proprio turno.

Carlo, con la sua cavalleria pesante e i suoi cannoni, era convinto che avrebbe avuto presto ragione di quei selvaggi ribelli della Confederazione Svizzera.
Le truppe di Zurigo, Berna, Lucerna, Uri, Svitto, Unterwalden, Glarona e Zugo, rinforzate da altre forze giunte dai paesi attigui, in realtà non temevano né cavalli né bombarde, ma anzi marciavano a spron battuto nella speranza di salvare i propri compagni di Grandson. Divisi in tre gruppi di armata, le forze cantonali andarono incontro all'esercito di Carlo senza incontrare né esploratori né avanguardie, poiché il Duca, nonostante fosse un ottimo generale, aveva dato per scontato che gli svizzeri non si facessero vedere.
Convinto che fosse solo l'avanguardia dell'esercito confederato, il Duca schierò la sua armata senza indagare oltre, schierando cavalleria e mercenari in formazione di attacco. L'artiglieria, che era pensata più che altro per gli assedi, venne armata, ma non abbiamo riscontri del suo reale impatto sulla battaglia. Certo è che il parco artiglieria di Carlo doveva essere imponente, mentre numerosi archibugi, bombardelle e scoppietti (di probabile produzione italiana, poiché la maggior parte delle botteghe di armi manesche dell'epoca si trovavano appunto in Italia) vennero utilizzati da entrambe le armate.

La prima colonna svizzera si piegò in preghiera. A sentire gli Ave Maria e i Padre Nostro, i borgognoni credettero che gli svizzeri volessero arrendersi, dunque si gettarono all'assalto al grido "Dovete morire tutti, nessuna pietà!". La cavalleria pesante agì molto bene: inflisse gravi perdite ai confederati e circondò il muro di picche. Tuttavia Carlo decise di farla ritirare, così da bombardare con cannoni e archibugi la formazione serrata dagli svizzeri. Fu in questo momento che le altre due colonne confederate emersero urlando dalla foresta vicina, travolgendo il fianco della fanteria borgogna. L'esercito del Duca sbandò molto in fretta e quasi senza colpo ferire si diede alla fuga, lasciando in mani confederate l'artiglieria e le salmerie.
Carlo, sebbene tentò fino all'ultimo di riunire i suoi uomini, fu costretto a scappare. Con pochissime perdite da ambo le parti, gli svizzeri avevano umiliato uno dei più spietati e abili generali del momento. Ma non sarebbe finita lì.

I soldati dei cantoni scoprirono i corpi appesi dei propri connazionali. Quello che per Carlo doveva essere il modo per piegare la volontà degli Svizzeri si dimostrò l'esatto contrario: furibondi, i picchieri delle montagne giurarono che i borgognoni l'avrebbero pagata cara.
E l'occasione per ciò sarebbe giunta molto presto...

Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?

Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.


mercoledì 5 settembre 2018

Magnifico, ma questa non è guerra: la carica della brigata leggere



Mezza lega, mezza lega
avanti, una mezza lega,
nella valle della Morte
cavalcarono tutti i seicento

25 ottobre 1854, Crimea. Le forze russe attaccano il campo britannico di Balaklava, nel tentativo di rompere l'assedio di Sebastopoli. Durante gli scontri che seguono fra soldati dello zar e truppe franco-inglesi, i russi riescono a catturare i cannoni navali dei turchi posizionati sulle alture Causeway e iniziano a rimuoverli. Non essendo ancora arrivate le due divisioni di fanteria richieste e avendo a disposizione solo due brigate di cavalleria, il comandante inglese Lord Raglan comanda al capitano Nolan di portare al marchese di Lucan l'ordine di attaccare i russi coi suoi cavalieri. Quando il marchese chiede a quali cannoni si riferisce l'ordine, non riuscendo a vedere il fianco destro occupato dai russi, Nolan indica con veemenza i quattordici cannoni dietro i quali si è raggruppata la cavalleria respinta dal 93° Highlanders, la famosa "sottile linea rossa".

Lucan ordina al marchese di Cardigan di caricare con la brigata leggera, mentre lui seguirà con la brigata pesante. Quando i dragoni leggeri, i lancieri e gli ussari di Cardigan entrano nella vallata, si fa chiaro che l'impresa è suicida: fra i cavalli britannici e le bocche da fuoco nemiche ci sono quasi 2 km di terreno aperto e pianeggiante, da percorrere sotto il fuoco d'infilata provenienti dai cannoni e dai fucilieri russi schierati sui pendii a lato della vallata. Nolan non può chiarire il malinteso, in quanto è uno dei primissimi a cadere; Lucan, rendendosi conto della situazione, arresta la brigata pesante e lascia che i 673 cavalleggeri di Cardigan attacchino da soli.
I russi sono sconvolti. Pensano che gli inglesi siano ubriachi, e aprono il fuoco sugli assalitori con tutto quello che hanno.

Cannoni alla loro destra,
cannoni alla loro sinistra,
cannoni davanti a loro
sparavano e tuonavano;
tempestati da palle e proiettili,
cavalcarono coraggiosamente dritti
nelle mandibole della Morte,
nella bocca dell'Inferno
cavalcarono i seicento.

I cavelleggeri trottano per alcuni minuti sotto il fuoco intensissimo proveniente da ogni lato, ma non si arrestano. Quando ormai sono così vicini da poter vedere gli artiglieri russi in faccia, spronano i cavalli e si lanciano alla carica, aprendosi un varco a sciabolate. La brigata leggera come un cuneo sfonda la massa della cavalleria russa, 5.240 soldati, prima di venir respinta dall'enorme superiorità numerica del nemico e ritirarsi. Gli artiglieri superstiti tornano immediatamente in posizione e ricominciano a sparare sugli inglesi in ritirata con palle di cannone e mitraglie. Almeno da un fianco non giunge più il fuoco dei russi, aggrediti dalla cavalleria coloniale francese.

I britannici ebbero 156 morti, 122 feriti e rimasero con soli 195 uomini ancora a cavallo. I russi ebbero qualche centinaio di perdite, ma mantennero la posizione e i cannoni, risultando vincitori dello scontro. In seguito a questo episodio audace, la reputazione della cavalleria inglese ne risultò fortemente aumentata, mentre quella dei loro comandanti ne venne intaccata.
Infatti ad oggi ancora non sono chiare le dinamiche che portarono al fraintendimento, ma quel che è certo è che rivalità e odii personali che avvelenavano i rapporti fra alcuni comandanti inglesi, specialmente Raglan e Lucan, furono tra le cause di quello che successe quel giorno.

Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?

Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.





https://bit.ly/2MkB1Zr

martedì 4 settembre 2018

I "latini" del nord, mercanti e cavalieri: i veneti



Nel territorio compreso tra il Lago di Garda e i Colli Euganei, fino a lambire i confini del Tagliamento e dell'Isonzo, troviamo il popolo che più d'ogni altro è ancora vivo nel sangue dei suoi discendenti: i Veneti, o Venetici.
Sono tantissimi i reperti che questa gente ha lasciato agli storici e agli archeologi, i quali hanno potuto ricostruire numerosi aspetti dei signori dell'est. I romani, nella loro proverbiale amicizia con i Veneti, li fanno discendere all'eroe divinizzato Diomede, che avrebbe fondato la città di Adria (sebbene poi si sia rivelata quest'ultimo un emporio greco gallico, piuttosto che veneto). Secondo Plinio il vecchio sarebbero degli esuli di Troia, altri autori come Strabone li tacciano quali celti, ma la storiografia moderna individua le loro origini nell'oriente: alcuni proprendono per un origine illirica balcanica, altri parlano invece di un legame diretto con gli oscoumbri, sulla base della grande somiglianza della lingua Veneta con quella Latina.

I Veneti ebbero il proprio massimo sviluppo tra il VIII e il II secolo a.c., per poi fondersi pacificamente ai romani. Questa integrazione ha permesso alla cultura di veneta di sopravvivere nell'alveo latinizzato, tale da mantenere sue caratteristiche uniche fino al medioevo. Essendo all'epoca la pianura padana un'immensa foresta spesso impaludata, i Veneti furono i primi a iniziare i lunghi lavori di disboscamento, fondando numerose città al posto dei villaggi e proto castellieri in cui vivevano inizialmente. Centri importanti furono Padova, Este, Montebelluna, Oppeano e Gazzo Veronese. Si è scoperta anche una grandissima necropoli Venetica a Mel, simbolo dell'avanzamento culturale e dell'opulenza dei veneti. A est la società Venetica si fuse con i clan Illirici (forse loro parenti), dando vita nella zona dell'Isonzo a una cultura chiamata Venetico-Illirica, che presenta elementi di entrambe le culture, sebbene con una dominanza dei più avanzati veneti. I veneti avevano quale dea Reitia, insieme a numerosi altri dei di cui non ci è giunto il nome: dai corredi delle tombe sembra che le donne avessero un ruolo importante nei riti sacri, nonché come guaritrici e incantatrici.

Oltre all'agricoltura e alla selvicoltura, i Veneti si dimostrarono fin da subito ottimi mercanti: stabilirono rotte commerciali con greci, etruschi, liguri e poi romani. L'alto adriatico divenne metà di navigatori egiziani e siriani, con cui i veneti scambiavano bronzo, vetro, ceramica. Al contrario dei loro eredi medievali, i veneti non si spinsero sul mare, ma preferirono commerciare tramite empori che costellavano la costa. Importantissimo era l'allevamento di cavalli, tanto che i veneti vennero fin da subito identificati quali cavalieri dai loro alleati romani, spesso sprovvisti di truppe in arcione.

I Veneti erano un popolo tendenzialmente pacifico, ma svilupparono un apparato militare molto avanzato per affrontare le continue incursioni celtiche, retiche e liguri. Oltre alla cavalleria, appannaggio dei nobili e del loro seguito di cavalleggeri, la fanteria veneta sfruttava delle formazioni proto manipolari, abbandonando le formazioni oplitiche di stampo etrusco. Le armi usate erano lunghe lance e scudi rotondi, mentre l'armatura pesante era poco utilizzata, preferendo piuttosto un combattimento agile e basato su contrattacchi e ritirate. Il contatto con i celti portò i veneti a fare uso anche di lunghe spade, scudi ovoidali e forse armature in cotta di maglia. L'esercito veneto si dimostrò estramemente efficace a respingere i galli invasori: non solo non vennero invasi, ma probabilmente fu il loro attacco alle forze di Brenno a salvare Roma dall'annientamento. I Veneti si integrarono alla perfezione nelle armate romane e fino alla loro inclusione nella repubblica fornirono eccelse unità alleate (socii), che combatterono contro tutti i grandi nemici dell'Urbe.

La lingua veneta rimane di classificazione incerta, ma si indicano due alfabeti di epoca diversa, contemporanei all'utilizzo della scrittura: quello etruscoide del VI secolo a.c. e quello greco romano del III secolo a.c. La presenza di fonemi latini e indoeuropei, che fanno pensare che entrambi agli idiomi siano giunti in Italia dalla medesima migrazione (dunque i veneti sarebbero stretti parenti dei Latini, che invece di fermarsi a nord scesero verso sud). Ciò potrebbe essere la spiegazione per cui Veneti e Latini furono sempre alleati e che i secondi consideravano i primi come loro parenti.

FONTI
Storia della Prima Italia, Massimo Pallottino.
Preistoria e Storia delle Regioni D'Italia, Gianna G. Buti
Reitia, Dea dei Veneti, Piero Favero
La situla Benvenuti di Este. Il poema figurato degli antichi Veneti, Luca Zaghetto

Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?

Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.





https://bit.ly/2MkB1Zr

lunedì 3 settembre 2018

Il dittatore cannibale: Idi Amin Dada (????-2003)


Centoventi chili per quasi due metri d'altezza, un gigante che incuteva terrore ma nello stesso tempo aveva qualcosa di goffo. "Un killer e un clown", come il Time descrisse il folle che dal 1971 al 1979 spadroneggiò sullo Stato centroafricano dell'Uganda, guadagnandosi soprannomi come "macellaio" e "dittatore cannibale".

«Solo Dio conosce la mia età» amava dire Idi Amin, e infatti ancora non si sa con certezza se sia nato nel 1924, nel '25 o nel '28, nell'area di Koboko, nel Nord-ovest del paese. Il padre aveva abbandonato il cristianesimo per la parola di Maometto, la madre era una sorta di guaritrice e lui frequentò pochissimo la scuola, rimanendo semi-analfabeta. Dopo un'adolescenza segnata dalla povertà e l'abbandono paterno, entrò nell'esercito coloniale britannico (l'Uganda era un protettorato inglese dal 1894) dove si guadagnò il nomignolo di "Dada", il nome con cui indicava le donne che frequentava spesso, termine traducibile come "sorella maggiore". Per assonanza, gli inglesi lo chiamavano invece Big Daddy.

In Kenya e in Somalia si distinse per la sua abilità (e la sua spietatezza) nel contrastare i movimenti di guerriglia anti-coloniale, tanto da essere promosso ed essere richiamato in Uganda per contrastare i ladri di bestiame, evirando col machete chiunque si rifiutasse di collaborare. La sua brutalità gli servì anche per vincere il titolo nazionale di campione dei pesi massimi di pugilato fra il 1951 e il 1960. Simpatico ai britannici, grazie al loro appoggio venne promosso a vicecomandante quando al paese venne concessa l'indipendenza nel 1962. Lui e il premier Obote guadagnarono milioni trafficando oro, armi, caffè e avorio con i contrabbandieri del Congo e dello Zaire. Rischiando di venire indagati e condannati, nel 1966 Obote mise in atto un colpo di stato scalzando il presidente Mutesa II e nominando Amin capo supremo dell'esercito. Il generale continuò ad arricchirsi intascando i finanziamenti destinati all'esercito, e per evitare l'arresto, nel gennaio del 1971 rovesciò il governo dell'ex-alleato Obote col favore dell'Occidente (in chiave anti-sovietica) e del popolo (promise riforme e libertà).

Il dittatore organizzò subito squadroni della morte per eliminare i presunti sostenitori di Obote, i capi militari dissidenti e gli intellettuali che criticavano il nascente regime. Il Nile Mansion Hotel, elegante albergo della capitale Kampala, divenne un centro di torture e sterminio dove i presunti nemici venivano sottoposti a sadici supplizi ideati da Dada stesso. Nell'agosto del 1972 gli ugandesi lo udirono dire alla radio «Allah mi è apparso in sogno e mi ha ordinato di cacciare dalla nostra terra tutti gli asiatici». I 50.000 asiatici, principalmente indiani e pachistani, furono costretti a lasciare il paese, che fu indebolito dato che molti asiatici gestivano imprese produttive che furono sequestrate dal dittatore. Il repulisti coinvolse anche il popolo degli Acholi e altre minoranze, colpevoli di essere pro-Obote. «I miei nemici? li taglio a pezzi e poi getto la carne ai coccodrilli» dichiarò l'ex-pugile parlando di loro alla stampa.

Forse reso pazzo dalla neuro-sifilide, fra le sue follie si annovera l'essersi presentato a Londra di fronte alla regina Elisabetta II con tre tonnellate di banane «per sfamare i poveri bambini inglesi», oltre a vantarsi con la sovrana di poter controllare i coccodrilli col pensiero. Adorava indossare sempre un'uniforme decorata da medaglie e decorazioni, alcune inventate da lui stesso, altre reali (come una medaglia del touring club austriaco). Oltre alle decorazioni, amava inventare e insignirsi di titoli come "Signore di tutte le bestie della terra e dei pesci del mare e conquistatore dell'Impero britannico, in Africa in generale, in Uganda in particolare" o "Re di Scozia". Ma molto più pericolose furono le sue follie geopolitiche. Dopo essersi alienato le simpatie di Israele e USA dopo aver elogiato Hitler e aver intrecciato rapporti coi sovietici, si inventò che alcuni territori di Kenya e Sudan erano in realtà ugandesi, minacciando di invadere anche il Sudafrica.

Nel 1976 offrì ospitalità ad alcuni terroristi palestinesi che avevano dirottato un volo Air France con decine di israeliani a bordo. Nella notte del 3 luglio le forze speciali israeliane risolsero la questione con un blitz presso l'aeroporto di Entebbe che distrusse i caccia ugandesi e danneggiò l'immagine del regime. Nello stesso periodo la verità iniziò ad emergere, e il resto del mondo conobbe la vera natura del capo di stato finora considerato solo comico e grottesco, che in un tentativo di rifarsi dello smacco di Entebbe dichiarò guerra alla Tanzania nel 1978. Ma l'esercito nemico, aiutato da esuli ugandesi, contrattaccò e lo costrinse alla fuga l'11 aprile 1979. L'ex "Invincibile" (come amava chiamarsi) riparò prima in Libia, poi in Iraq e infine in Arabia Saudita, dove morì nel 2003 per una malattia ai reni.

L'orco clownesco che aveva gestito il paese con logiche tribali aveva massacrato fra le 300.000 e le 500.000 persone di un paese che contava appena 12 milioni di abitanti. Il sospetto che il dittatore avesse praticato il cannibalismo, come un tempo si faceva nel paese nel corso di alcuni rituali, venne rafforzato dal fatto che nel suo palazzo vennero trovate celle frigorifere colme di arti umani, bulbi oculari, labbra, nasi e testicoli.

Regogolo Boemetto

Piaciuto l'articolo?

Seguiteci su facebook per informazioni su nuovi articoli, racconti, romanzi e altro ancora.



https://bit.ly/2MkB1Zr