Ficca il naso

sabato 8 settembre 2018

Avanti, Tridentina! La battaglia di Nikolajewka, 26 gennaio 1943


Con l'offensiva Ostrogožsk-Rossoš', la terza grande spinta per intrappolare le forze dell'Asse e distruggerle, i russi danno inizio a quella che noi conosciamo come Seconda battaglia difensiva del Don, mentre le Divisioni di Fanteria italiane, battute, iniziano quella marcia di ripiegamento da incubo in cui i morti e i congelati si conteranno a migliaia.
Il Corpo d'armata alpino, ultimo corpo ancora efficiente dell'8ª Armata italiana in Russia, riceve l'ordine di resistere sulle proprie posizioni per non essere accerchiato. Ma dopo aver sfondato le linee tedesche a sud e quelle ungheresi a nord, i russi possono intrappolare gli italiani, il cui fronte centrale non è caduto. Per non essere annientate, le nostre formazioni, cui si aggregano migliaia di rumeni, ungheresi e tedeschi, iniziano la durissima marcia per rientrare entro le linee amiche. Oltre al gelo, alla mancanza di mezzi, vestiti, cibo, medicine e armi, i soldati italiani devono subire i frequenti e improvvisi attacchi russi, oltre a dover pagare altissimi tributi di sangue per forzare i blocchi sovietici.

Dopo 15 drammatici giorni e 200 km punteggiati da perdite e sacrifici, la mattina del 26 gennaio le colonne in ritirata giungono davanti a Nikolajewka, un piccolo villaggio eretto su una modesta collinetta. Circa tre battaglioni russi supportati dai partigiani si sono arroccati fra le isbe, sfruttando il terrapieno della ferrovia, trincee e muri per trasformare il villaggio in una piccola fortezza. Per aprire la strada ai 40.000 uomini semi-congelati e quasi disarmati, bisogna affidarsi agli unici ancora in grado di affrontare uno scontro tanto duro: gli alpini della divisone Tridentina. Potendo contare sul supporto di fuoco del gruppo artiglieria Bergamo e di tre semoventi tedeschi, gli alpini a colpi di fucili e bombe a mano riescono a snidare i tenaci difensori dalla prima linea di difesa. Viene raggiunta la scarpata della ferrovia e i mitraglieri possono appostarsi nelle isbe appena sottratte al nemico. La reazione russa è violentissima: per tutta la mattina si procede ad assalti e contrassalti, con feroci scontri ravvicinati con bombe, fucili e pugnali casa per casa.

Inchiodati dal fuoco intensissimo dei sovietici, supportati dagli aerei che mitragliano a bassa quota, dalle mitragliatrici appostate che fanno strage e da un maggior numero di armi pesanti, nonostante i rinforzi che giungono verso mezzogiorno, gli alpini disperano di poter conquistare Nikolajewka, tanto che gli ufficiali si lanciano alla testa dei reparti per catturare il villaggio prima che il calar del sole sancisca una notte all'addiaccio e alla mercé del nemico. Il Capo di Stato Maggiore del Corpo d'Armata Alpino Giulio Martinat, vedendo gli alpini del suo battaglione Edolo andare all'assalto, dichiara «Ho cominciato con l'"Edolo", voglio finire con l'"Edolo"» per poi cedere al suo istinto di soldato, imbracciare un fucile e lanciarsi all'attacco coi suoi, incitandoli con le parole «Avanti alpini, avanti di là c'è l'Italia, avanti!» prima di venire mortalmente colpito.

Quando ormai la speranza sta per cedere il passo alla disperazione, il generale Luigi Reverberi balza su l'ultimo carro armato utile e con la pistola in pugno lancia il mezzo contro le linee nemiche al grido di «Avanti, Tridentina!». Il gesto e il grido elettrizzano sia i combattenti che la massa di sbandati, che incuranti del pericolo si lanciano come una valanga umana contro gli atterriti russi, che fuggono lasciando le armi e i morti dietro di sé. Con la via finalmente aperta, la strada per Shebekino, il luogo dove finirà la tremenda marcia, è aperta. Ma a che costo?
Sulla neve di Nikolajewka rimangono 3.000 penne nere e 39 ufficiali, un altissimo tributo pagato per permettere alle colonne di commilitoni di trovare la salvezza e un possibile ritorno a casa.

Citando il canto Sul ponte di Perati:

Gli Alpini fan la storia,
la storia vera:
l'han scritta con il sangue
e la penna nera.

Artwork di Giuseppe Rava

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