Ficca il naso

lunedì 10 settembre 2018

La furia della vecchia confederazione: Morat, 1476




20.000 mercenari circondavano Morat, roccaforte fedele ai cantoni sita sul lago omonimo. Il Duca Carlo I, furibondo per l'ignominosa sconfitta di Grandson (1476), desiderava una rivincita. Ai suoi ordini c'erano arcieri inglesi, picchieri fiamminghi, armigeri italiani (5000) e la sua abilissima cavalleria pesante, l'unica che era riuscita a mettere in difficoltà gli svizzeri nelle precedenti battaglie. Non c'era invece la sua costosa artiglieria, caduta nelle mani degli svizzeri, sebbene fosse riuscito ad acquistarne altri pezzi per rinforzare le palizzate del suo campo.
Non mancavano neppure i Savoiardi del conte Romont, in gran parte cavalleggeri, che si posizionarono a nord per intercettare i rinforzi degli svizzeri.

Il Temerario schierò le truppe per accogliere i nemici, che riteneva sarebbero giunti dalla direttiva del ruscello di Burggraben. Al centro fece costruire un'imponente opera di trinceramenti e palizzate, dove si posizionò la maggior parte della fanteria non impegnata nell'assedio. Alla destra si schierarono i gendarmi, che con le loro spade, azze e alabarde avrebbero dovuto aprirsi un varco nel porcospino svizzero. L'artiglieria era a sinistra, situata su un avvallamento scosceso che permetteva di bombardare senza ostacoli le truppe confederate. Sembrava un piano perfetto, ma il destino non arrise ai borgognoni.

Mentre in città si combatteva lungo le brecce, le forze del Temerario ricevettero più volte notizia dell'imminente arrivo dei confederati, dunque non mollarono mai i loro posti dietro le palizzate, sempre sul chi vive. All'alba del 22 giugno sembrava che la battaglia stesse per iniziare, le voci dell'arrivo dei ribelli si rincorrevano per il campo. Ma i militi del Duca rimasero per ore sotto la pioggia senza vedere alcun avversario, tanto che Carlo fece smontare i cavalieri e distribuì il pasto di mezzogiorno. Era pure giorno di paga per i mercenari. Rimasero alla palizzata solo 3000 uomini, stretti nei mantelli e sferzati dalla pioggia
Fu in quel momento che gli svizzeri calarono sul nemico.

L'avanguardia, 6000 fanti e 1200 cavalieri, emerse dalla foresta di Birchenwald, nel punto esatto predetta dal duca. Insieme a loro marciava il blocco principale dell'esercito confederato: 10.000 picchieri disposti a cuneo, protetti ai fianchi da alabardieri da un ulteriore anello di picchieri in armatura pesante. Una retroguardia di 6000 miliziani chiudeva la colonna svizzera, che non mancava di archibugieri e schioppettieri. Gli svizzeri caricarono a testa bassa la palizzata, i cui difensori combatterono come diavoli per dare tempo ai compagni di organizzarsi.
L'artiglieria riuscì a sparare poche salve, ma inflisse un grave scotto ai confederati, stretti in quella falange. Non appena un gruppo di picchieri trovò un sentiero sinistro senza protezione, la palizzata venne travolta del tutto. I difensori vennero trucidati e l'armata svizzera calò sul campo, avvinto dalla confusione. Carlo galoppò in mezzo ai suoi uomini nel tentativo di riunirli, ma gli attacchi dei mercenari si infrangevano contro l'inesorabile muro di picche. Sebbene i cavalieri pesanti riuscirono a mettere in rotta i soldati di Lorena, la battaglia era ormai perduta.

Carlo Il Temerario dovette dare con cuore grave l'ordine di ritirata, che si trasformò in una rotta. Gli svizzeri erano furibondi per l'affronto di Grandson, dove 400 connazionali erano stati impiccati senza pietà, dunque sfogarono la propria rabbia contro i mercenari in fuga.
Morirono quasi 10.000 uomini, non vennero risparmiati neppure i seguiti di donne e civili che erano soliti seguire gli eserciti dell'epoca. Mentre i Savoiardi riuscirono a fuggire insieme ai cavalieri grazie ai loro destrieri e alla posizione defilata, per gli italiani fu un eccidio.
Essi avevano combattuto sulle sponde del lago sia contro i confederati che contro i difensori della città riunitisi in una sortita. Tennero duro per l'intera giornata, infliggendo grandi perdite ai nemici, ma alla fine dovettero cedere. Non ci fu pietà per quei mercenari, stretti tra lago e picche nemiche, che vennero praticamente sterminati.
Fu un evento terribile per il mercenariato italiano, tale da rimanere nelle coscienze dei peninsulari fino alla battaglia di Marignano (1513), dove le armate "nere" italiane riservarono lo stesso trattamento ai mercenari confederati.

Il duca Carlo era invece riuscito a sopravvivere ancora una volta alla disfatta, ma la sua reputazione era in pezzi. Il suo istinto guerriero non si era ancora placato e, in un ultimo tentativo di riconquistare il suo onore, sarebbe morto in battaglia.


Regogolo Boemetto

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