L'imperatrice Taitù Batùl guida gli etiopi in battaglia. |
Sul finire dell'Ottocento, il secolo dell'imperialismo e della corsa alla conquista del mondo, in Africa erano rimasti solo due stati non controllati da una nazione europea: la Liberia e l'impero etiope, conosciuto anche come Abissinia. La giovane nazione italiana, desiderosa di reclamare una fetta della torta africana per trarne risorse e prestigio, aveva acquisito negli anni precedenti la Somalia italiana e l'Eritrea. I rapporti con il "negus" (imperatore) Menelik II erano stati in teoria stabilizzati col trattato di Uccialli, col quale il sovrano etiope acconsentiva a cedere alcuni territori in cambio di assistenza finanziaria e militare da parte del governo italiano.
Ma l'articolo 17 del trattato diede adito a un'accesa disputa. Infatti, secondo l'interpretazione italiana, Menelik accettava di intrattenere rapporti diplomatici con altre nazioni solo attraverso la mediazione italiana, rendendo di fatto l'Etiopia un protettorato, mentre invece gli etiopi affermavano che nella versione in aramaico era implicato che l'Italia veniva riconosciuta quale interlocutrice privilegiata, ma non unica. Le relazioni fra le due nazioni peggiorarono sempre di più, fino a quando il negus non ripudiò il trattato di Uccialli nel 1893, quattro anni dopo la sua firma, reso più sicuro dall'imponente quantità di armi che aveva accumulato in vista di uno scontro con i vicini.
Per prima cosa gli italiani tentarono di convincere i vari potenti locali che componevano il mosaico feudale nel quale era ancora inserita la società etiope a voltare le spalle al negus, non ottenendo il risultato sperato. Infatti Menelik era riuscito a unire le diverse tribù e popolazioni, spesso in lotta fra loro, sotto una sola bandiera per respingere l'odiato invasore bianco. Non potendo contare sulla collaudata tattica del divide et impera, gli italiani scelsero di ricorrere alla forza militare, dando inizio alla prima guerra italo-etiopica.
Le truppe italiane riuscirono a sopprimere una rivolta scoppiata in Eritrea, ma non poterono impedire che le enormi forze messe in campo dal negus e armate con moderni equipaggiamenti sconfiggessero gli italiani ad Amba Alagi e Meqele. Il governatore dell'Eritrea e comandante in capo Oreste Baratieri contava di poter attirare le forze di Menelik in una trappola, ben consapevole che gli oltre 100.000 guerrieri del negus avrebbero esaurito le risorse locali da lì a breve. Ma che un'armata europea tentennasse di fronte a degli africani considerati inferiori era intollerabile per le autorità romane: Crispi stesso inviò un telegramma furioso in cui esortava Baratieri ad attaccare e disperdere le forze nemiche.
Il piano del generale italiano richiedeva tempismo, buona conoscenza del territorio e un'eccellente sincronia fra i vari reparti. Tre delle quattro brigate disponibili avrebbero dovuto marciare parallelamente, in modo da potersi coprire a vicenda con un mortale fuoco incrociato, mentre la quarta sarebbe rimasta di riserva. Una volta guadagnato il vantaggio del terreno sopraelevato, gli italiani avrebbero dovuto attaccare il nemico ancora addormentato e farne scempio. Con questi ordini nella notte fra il 29 febbraio e il 1 marzo partirono le tre colonne, che, a causa della asperità del terreno, delle mappe poco precise e della mancanza di coordinamento e informazioni, si allontanarono troppo e rimasero isolate.
Il negus, avvisato tempestivamente dalle proprie spie, riuscì a portare le proprie truppe in una posizione vantaggiosa per l'artiglieria, che alle 6 del mattino aprì il fuoco sugli ascari del generale Matteo Albertone, della brigata di centro. Per due ore i soldati africani comandati dagli ufficiali italiani si difesero strenuamente, ma quando Albertone venne catturato gli ascari ruppero i ranghi e cercarono di raggiungere la brigata del generale Arimondi. Ondate su ondate di etiopi, soldati coraggiosi e avvezzi al combattimento corpo a corpo, assalirono i soldati di Arimondi senza successo, tanto che già gli italiani speravano di poter comunque strappare la vittoria dalle fauci della sconfitta, quando Menelik inviò la sua riserva di 25.000 guerrieri, il cui attacco travolse i difensori. Il generale Dabormida tentò di portare la sua brigata in soccorso del fianco sinistro in difficoltà, ma non poté raggiungere Arimondi in tempo, iniziando invece una ritirata combattuta. A causa della scarsa conoscenza del terreno e della fretta, le truppe italiane si infilarono in una stretta valle dove vennero attaccate senza pietà dalla cavalleria degli Oromo.
Baratieri si trovò a doversi difendere dalle forze soverchianti con quello che restava dei suoi 17.000 uomini, ma entro mezzogiorno le ultime sacche di resistenza erano state disperse sui pendii del monte Belah. Fu per noi una sconfitta devastante: sul campo rimanevano 7.000 morti (metà italiani, metà ascari), 1.500 feriti e 3.000 prigionieri, contro 5.000 morti etiopi e 8.000 feriti. Il tasso di perdite di questa battaglia fu il peggiore di tutto il XIX secolo, superiore anche a quello delle battaglie napoleoniche più sanguinose. I nostri prigionieri furono trattati bene (nei limiti delle condizioni presenti), mentre invece gli ascari, considerati traditori, ebbero una mano e un piede mozzato come punizione. Invece di inseguire i resti delle forze italiane, Menelik si affrettò a concludere un trattato di pace e il trattato di Addis Abeba, molto più favorevole del precedente agli etiopi.
La sconfitta generò in patria un'ondata di malcontento e rabbia che portò alla caduta del governo Crispi, accusato di aver gettato milioni di lire e la vita di migliaia di giovani per condurre delle folli avventure estere. Vendicare l'umiliazione di essere stati gli unici europei a venire sconfitti dagli africani fu uno dei principali temi su cui fece leva la propaganda fascista quando gli italiani tornarono 40 anni dopo, con una superiorità di mezzi ed equipaggiamenti schiacciante che portò all'occupazione quinquennale dell'Abissinia.
Regogolo Boemetto
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