L'Impero romano è ormai al tramonto. Il portentoso edificio costruito dagli Scipioni, da Cesare, da Augusto, da Traiano, sta crollando, un pezzo alla volta, sotto ai colpi di carestie, ribellioni, crisi e l'arrivo dei popoli migratori. Vere e proprie orde, decine di migliaia di guerrieri, ma anche donne, vecchi e bambini che sfuggono non solo da un clima sempre più inclemente, ma anche dall'inesorabile avanzata di un nemico invincibile, che offe solo la resa o la distruzione totale. Guidati dal terribile Attila, gli Unni hanno costruito con le ossa e col sangue un impero che va si estende per oltre 4.5000 chilometri dalle steppe caucasiche fino al Reno e al Danubio. Con i due imperi, d'Occidente e d'Oriente, Attila ha sempre avuto rapporti complessi, di collaborazione e di conflitto: riceve un tributo regolare dall'imperatore d'Oriente ed è stato insignito del titolo di magister militum. Il suo matrimonio con Onoria, la sorella dell'imperatore Valentiniano III potrebbe legare il destino del capo unno a quello della famiglia imperiale, ma Valentiniano stesso è contrario, così come Flavio Ezio, il comandante supremo dell'esercito dell'impero d'Occidente.
Figlio di una patrizia e un generale germanico, Ezio era il perfetto esempio di quella commistione fra barbari e romani che caratterizzò l'epoca tardo-antica. Da giovane era stato tenuto come ostaggio presso gli Unni e dunque aveva avuto modo di comprendere come ragionassero, come combattessero e come batterli. Il mancato matrimonio e altre questioni dinastiche minori spingono Attila ad invadere il nord della Gallia nella primavera del 451 con un gran numero di popoli alleati. Nessuna città incontrata sul cammino, tranne Parigi, "salvata" da Santa Genoveffa, scampa al saccheggio, fino a quando l'esercito del re unno giunge davanti alle porte di Aurelianum, l'odierna Orléans. La città, difesa dai fedeli alani di re Sangibono, era la porta per raggiungere la Gallia sud-occidentale governata dai visigoti di Teodorico I. Ma proprio quando gli unni e i loro alleati sono sul punto di prendere la città sulla Loira, appare l'esercito di Ezio, che è riuscito a convincere Teodorico a unirsi a lui per contrastare l'invasore. Non volendo rimanere chiuso in una sacca, Attila abbandona l'assedio e si ritira in buon ordine per cercare un campo adeguato alla battaglia. La sua armata si ferma infine in una pianura dello Champagne, i Campus Mauriacus, i cosiddetti Campi Catalunici, un terreno particolarmente adatto alle manovre della cavalleria.
Pochi giorni dopo l'armata di Ezio raggiunge il nemico e pone il campo, in attesa dei Franchi sali di re Meroveo, il capostipite della prima dinastia di monarchi francesi. Nella notte tra il 19 e il 20 giugno, mentre gli dei profetizzavano ad Attila tramite gli sciamani che perderà la battaglia ma ucciderà il capo nemico, giungono sul campo i Franchi di Meroveo, che nella notte chiara ingaggiano battaglia con gli odiati Gepidi. Si accendono mischie sparse in cui gli uomini si pugnalano e si fanno a pezzi al buio, senza neanche vedere il volto di vittime e carnefici. Lo scontro è di una ferocia spaventosa, tanto che solo in quella notte lo storico Giordane parla, sicuramente esagerando, di 30.000 morti. Al mattino dopo le due armate si schierano per la battaglia. Sembra più che altro un grande scontro fra etnie e tribù germaniche più che uno fra Unni e Romani. Infatti dalla parte di Ezio combattono Visigoti, Alani, Franchi sali, Sassoni, Burgundi e Armoricani, mentre Attila conta sul supporto di Rugi, Sciri, Turingi, Franchi, Eruli, Ostrogoti e altri Burgundi.
La prima mossa di entrambi i generali è di cercare di occupare una piccola altura, conquistata da Ezio prima di Attila. Il re degli unni, forse perché ricordando l'oracolo non vuole subire troppe perdite, non si affretta ad attaccare, lanciando i suoi cavalieri alla carica solo verso le tre del pomeriggio. Gli Alani scricchiolano sotto la pioggia di frecce e l'urto degli abilissimi cavalieri delle steppe, ma sono stati messi al centro da Ezio proprio perché sono in grado di contrastare le tattiche degli Unni, che vengono respinti con pesanti perdite. Intanto sul lato sinistro di Ezio i Gepidi, provati dai combattimenti notturni, non riescono a sfondare il muro di scudi romano-franco, nonostante il supporto di Rugi, Sciri e Turingi, e vengon incalzati dai disciplinati guerrieri.
Ma è sul lato destro che si scatena la strage peggiore, lo scontro fratricida fra i Goti. Le asce, le frecce e la lance si conficcano negli scudi e nei corpi dei guerrieri prima che le masse urlanti di Visigoti e Ostrogoti cozzano l'una contro l'altra come due valanghe d'acciaio e carne. Le asce spaccano scudi e crani, le lame mozzano teste e arti mentre il sangue scorre a fiumi fra i cumuli di cadaveri trucidati. Nella mischia cade il re Teodorico I, il capo la cui morte era stata annunciata dal vaticino, ma anche molti altri principi e signori trovano la morte. Vedendo le proprie linee scricchiolare e rischiare l'annientamento della propria armata, Attila fa suonare la ritirata per ritirarsi nel proprio campo, deciso a vendere cara la vita. Erige una pira funebre al centro del campo, deciso a buttarcisi dentro piuttosto che concedere a un nemico l'onore di averlo ferito.
Ma Ezio teme che senza gli Unni l'alleanza coi Visigoti avrebbe perso ragione di essere, e così congeda gli alleati Franchi e Visigoti e permette agli avversari di lasciare il campo senza ulteriori scontri.
Alla fine di quella giornata di sangue, secondo le fonti rimasero fra i 162.000 e i 300.000 morti, sicuramente un'esagerazione, ma che ci fa comprendere quale dovesse essere la portata del massacro.
Regogolo Boemetto
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