Ficca il naso

venerdì 24 agosto 2018

Domenica di sangue a Villa Corsini: Roma, 3 giugno 1849




Il fuoco che si era propagato attraverso l'Europa nel fatale 1848 sembrava ormai essere stato domato dalle forze reazionarie e conservatrici. Ma nell'Italia che si era sollevata per rivendicare maggiori diritti e la libertà dallo straniero, ancora due città restavano a farsi portabandiera delle aspirazioni liberali: Venezia e Roma. 
Dopo la fuga di quello che era sembrato in un primo momento un papa liberale, Pio IX, era stata proclamata la Repubblica Romana, un laboratorio di idee progressiste e liberali come il suffragio universale maschile, l'abolizione della pena di morte e la libertà di culto. Ma il pontefice non si era rassegnato alla perdita del potere temporale, e in seguito al suo appello, ben quattro forze di invasione erano calate sull'Italia centrale per ristabilire il dominio del papa: da nord un'armata austriaca, da sud i napoletani con gli spagnoli, mentre dal mare erano giunti i francesi del generale Oudinot.

In barba alla costituzione della repubblica francese, che prometteva di "non adoperare mai le sue forze contro la libertà d'alcun popolo", il corpo di spedizione transalpino marciò speditamente contro la Città Eterna, convinti dello stereotipo che "gli italiani non si battono". L'ottimismo francese però svanì quando il 30 aprile il primo assalto si infranse contro le porte di Roma, difese dei risoluti volontari pure addestrati sommariamente e armati assai peggio degli assalitori, considerati ancora i migliori soldati del mondo. Garibaldi, il poncho bianco e la spada sguainata, guidò un contrattacco alla baionetta talmente violento da mettere in rotta i francesi che lasciavano sul campo centinaia di morti e un numero superiore di prigionieri. Beffardo, il proclama della Commissione delle Barricate annunciò il giorno dopo «l'ingresso dei francesi in Roma cominciò ieri; entrarono per porta S. Pancrazio in qualità di prigionieri».

Consapevoli di non poter prendere la città con la facilità sperata, i francesi intavolarono trattative per stabilire una tregua, accettata senza esitazioni dal governo repubblicano che doveva anche occuparsi dei napoletani che avanzavano da sud. Nel corso del mese di maggio Garibaldi respinse le forze partenopee con le battaglie di Palestrina e Terracina, riuscendo a farle desistere dal muovere sull'Urbe. Intanto i francesi mascheravano con la diplomazia i loro preparativi: erano giunti tali rinforzi da far arrivare il contingente a 30.000 soldati dotati di un'imponente parco d'artiglieria. Secondo quanto concordato, le ostilità sarebbero riprese il mattino del 4 giugno. Tuttavia, alle 3 del mattino del 3 giugno, tradendo la parola data, le colonne francesi assaltarono le ville su cui si imperniava il sistema difensivo della città, scacciando i difensori sorpresi da Villa Pamphilj per poi attaccare anche Villa Corsini. Per i francesi il possesso del Gianicolo era fondamentale, in quanto avrebbe permesso di bombardare impunemente l'intera città. Proprio per impedire ciò, quel 3 giugno si scrisse una delle pagine più sanguinose del Risorgimento.

Per tutto il giorno si procedette fra attacchi e contrattacchi, con l'edificio preso, riperso, e poi preso di nuovo. I patrioti si slanciavano a piedi o a cavallo su per le scalinate della villa, incuranti del micidiale fuoco nemico che proveniva da ogni finestra, siepe, muretto e porta. Negli spazi angusti le armi da fuoco diventavano inutili e si scatenavano micidiali mischie in cui gli uomini si facevano a pezzi con coltelli, baionette, pietre, unghie e denti. Gli italiani scacciavano i francesi dalle barricate erette con i cadaveri per poi essere di nuovo respinti dalla ben piazzata artiglieria transalpina. Cadde Angelo Masina, comandante dei lancieri della morte, che ferito, si rigettò nella mischia. Venne mortalmente ferito Goffredo Mameli, circondato dai compagni che cantavano il suo Canto degli Italiani. Il sergente Manfrin dei bersaglieri, ferito gravemente, rispose al colonnello Manara che lo esortava a ritirarsi, con «Lasciatemi stare colonnello, almeno faccio numero» e cadde sotto al fuoco nemico. Caddero pure i varesini Francesco Daverio ed Enrico Dandolo. Il colonnello Manara scrisse «Vorrei ad uno ad uno potervi raccontare i fatti memorabili di quella giornata, in cui, giovinetti già con due o tre ferite nel corpo, vollero combattere ancora e morire gridando, viva la repubblica!; altri vedere rassegnati cadere il fratello, l'amico, e spingersi ancor più arditi contro il fuoco nemico».
«Gli italiani non si battono». «l'Italia è un'espressione geografica», «gli italiani non hanno coraggio». Parole cancellate dal sangue, 
«…la lunga lista rossa come un tappeto rosso che dalla Porta San Pancrazio giungeva fino alla porta dell’ambulanza della larghezza di circa un metro e ottanta centimetri. Questo tappeto era il sangue che colava dalle barelle che trasportavano i morti e i feriti…» (A. Ciabattini).

Seppure dal punto di vista militare i ripetuti assalti di piccole unità furono un errore costoso, in quanto in molti caddero per la mancata riconquista di una posizione indifendibile, dal punto di vista ideologico la giornata del 3 giugno fu un olocausto di sangue per la causa rivoluzionaria, una pagina drammatica che però rafforzò in tutti la volontà di combattere. Fu proprio il sacrificio di tanti giovani a rimuovere definitivamente le aspirazioni nazionali dal terreno dell'utopia e rafforzare in tutti gli italiani la coscienza di un diritto tante volte negato. Come scrisse Manara in una lettera pochi giorni prima di cadere anch'esso «Noi dobbiamo morire per chiudere con serietà il Quarantotto; affinché il nostro esempio sia efficace, dobbiamo morire».

I combattimenti proseguirono aspri per tutto il mese di luglio, coi francesi che bombardarono la città stessa per costringere i romani alla resa. Stretti da forze soverchianti, per evitare alla popolazione la battaglia in città e il saccheggio, le forze repubblicane decisero di arrendersi, ma solo dopo aver promulgato come ultimo atto la Costituzione. Dopo che Garibaldi fu uscito da Roma col celebre discorso in cui offriva soltanto «... fame, freddo, marce forzate, battaglie e morte» seguito da 4.000 volontari, i francesi entrarono in Roma fra i "chicchirichì" di scherno degli abitanti. Terminava così la Repubblica Romana, e dopo la caduta di Venezia, il primo, grande tentativo italiano di liberarsi dal giogo dello straniero e della tirannia.

Regogolo Boemetto

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